L’Italia ha già utilizzato le risorse energetiche sostenibili annuali (ma nessuno lo dice).
Il 5 Giugno in tutto il mondo si celebra la Giornata mondiale dell’ambiente. Un’occasione per ricordare che abbiamo a disposizione una sola casa. Non è un caso se, cinquanta anni dopo la sua introduzione, lo slogan della giornata è sempre lo stesso: “Only One Earth“, cioè “Una sola Terra”. Una ricchezza per tutti. Da salvaguardare, a ogni costo.
Invece, stando ai numeri, a nessuno sembra importare della Terra. Tanto meno all’Italia e a chi la governa (in barba alle promesse verdi fatte da tutti i governi). per l’Italia, la giornata dell’Overshoot day, ovvero quel momento in cui un paese ha esaurito le risorse e i servizi naturali a sua disposizione per quell’anno è già passata: è stata il 15 maggio scorso. Da quel momento siamo in debito con la Terra. A confermarlo sono i dati del Global Footprint Network, l’organizzazione di ricerca internazionale che ogni anno misura “l’Overshoot day” ovvero l’impronta ecologica dei paesi, la loro domanda di risorse rispetto alla capacità di rigenerarsi che hanno.
All’Italia sono bastati 134 giorni per esaurire le risorse annuali per il 2022. Molti i paesi sviluppati e, almeno sulla carta, “verdi” che in realtà hanno fatto peggio dell’Italia. Sorprendentemente molti i paesi scandinavi: come la Svezia (il 3 aprile), la Finlandia (31 marzo), Danimarca (28 marzo). E poi la Germania che avrebbe esaurito le proprie risorse sostenibili il 4 maggio. E poi Russia, Norvegia, Austria, Olanda Repubblica Ceca, Stati Uniti d’America, Canada, Australia e Belgio: nessuno di questi paesi “sviluppati” è riuscito ad andare oltre i mesi di aprile e marzo.
Sorprendentemente (ma fino a un certo punto visto che la situazione si ripete da anni), meglio di loro hanno fatto paesi meno “sviluppati” come la Giamaica (quasi completamente sostenibile visto che esaurirà le proprie risorse solo il 20 dicembre), l’Ecuador, l’Indonesia e Cuba.
Solo in questi paesi il “budget” di risorse naturali e servizi ecosistemici a disposizione (la biocapacità), confrontati con la domanda di tali risorse e servizi (come proxy viene usata l’impronta ecologica), mostra quasi un pareggio. Per gli altri la situazione appare ogni anno che passa sempre peggiore (in barba alle belle parole, alle promesse fatte durante incontri internazionali come la COP26 di Glasgow lo scorso anno, e agli impegni che quasi sempre restano solo inchiostro sprecato).
Per molti paesi la situazione resta preoccupante. Anche l’Italia dove, senza considerare il peggioramento e l’impatto dovuto alla guerra in Ucraina (con la decisione di lasciare aperte alcune centrali elettriche a carbone), il quadro generale appare drammatico. Per supportare consumi di risorse biologiche come quelli italiani, sarebbe necessario disporre di un territorio 2,7 volte più grande di quello delimitato dai nostri confini nazionali. Questo significa che a partire dal 16 maggio, gli italiani hanno cominciato a erodere il capitale naturale a disposizione, compromettendo degli ecosistemi di mantenere la propria condizione. Ma vuol dire anche un’altra cosa: che piano piano, zitti zitti, gli italiani, anno dopo anno consumano risorse che appartengono ad altri territori (i flussi di materia che hanno attraversato il metabolismo economico italiano sono stimati in 444 mln di tonnellate delle quali 161 mln rappresentano importazioni nette).
Per invertire questo processo non è necessario (come continuano a ripetere alcuni personaggi politici) trovare nuove fonti energetiche. É necessario prima di tutto ridurre i consumi. “Credo valga la pena riflettere su quali siano le attività giornaliere che determinano maggiormente l’impronta di noi italiani” ha dichiarato Alessandro Galli, senior scientist del Global Footprint Network. “Le nostre analisi indicano i consumi alimentari (25% circa dell’impronta totale) e il settore dei trasporti (18% circa) come le due determinanti principali dell’impronta ecologica degli italiani. Intervenire sul sistema alimentare e su quello dei trasporti, nonché sulla pianificazione territoriale ed urbana, sono a mio avviso i punti cardine dai quali partire per un Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) che miri a mitigare le cause principali della nostra impronta ecologica”.
Per alcuni decenni, in tutto il mondo, la parola d’ordine fu sostenibilità. Le Nazioni Unite incaricarono addirittura una commissione, guidata dalla dott.ssa Brutland di definire il significato di questa parola legato alle politiche da adottare. Ne venne fuori un rapporto che per molti anni fu il punto di riferimento cui rivolgere tutte le scelte politiche e geopolitiche legate all’ambiente. Il lavoro venne racchiuso nel motto: “Uno sviluppo è sostenibile quando garantisce benessere alle generazioni di oggi senza mettere in pericolo il futuro delle generazioni successive”.
Poi ci si rese conto che nonostante le belle parole, le promesse, le iniziative promesse e mai realizzate, le decisioni non erano affatto “sostenibili”. E le emissioni di CO2 continuavano ad aumentare, fino a raggiungere livelli ben maggiori di quelli che un tempo si pensava fossero il punto di non ritorno per l’ambiente. E allora si è deciso di non parlare più di “sostenibilità”. E di cominciare a parlare di “resilienza”. Oggi non c’è documento, programma politico e misura comunitaria o internazionale dove questa parola non è riportata in primo piano. I dati rilevati dal Global Footprint Network dimostrano che cambiando le parole, la situazione non è diversa. Ogni anno il punto di non ritorno, il giorno nel quale un paese non è più “sostenibile” cade sempre prima. E per far finta che va tutto bene, si preferisce non dire che l’Italia (e la maggior parte dei paesi “sviluppati”) non è né sostenibile né “resiliente” e che il suo Overshoot Day è già passato. Anzi che è passato prima della Giornata mondiale della Terra, la giornata che doveva servire a ricordare a tutti che “c’è una sola Terra”.