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Max Ernst. Il surrealista psicoanalitico

di Valentina Becchetti 10 Novembre 2020
di Valentina Becchetti 10 Novembre 2020
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Quest’estate le rose sono azzurre; il bosco è vetro.

La terra drappeggiata nelle sue fronde mi fa tanto poco effetto come un fantasma.

Vivere e cessare di vivere, sono soluzioni immaginarie.

L’esistenza è altrove.

 

(André Breton, Il manifesto del Surrealismo)

Maximilien Ernst, artista considerato dalla storia dell’arte come uno dei più importanti surrealisti e pioniere della tecnica pittorica del grattage e del frottage, nacque il 2 aprile 1891 a Brühl, nei pressi di Colonia. Suo padre era Philipp Ernst, pittore per ciechi e sua madre Louise Kopp. Pittore e scultore surreale e innovatore, acclamato dalla critica e dagli amici, in lui convissero tumulti e fervore genio e sregolatezza, istinto e introspezione.

Quando Max Ernst vide i lavori degli artisti moderni come Cézanne e Picasso alla mostra Sonderbund del 1912 a Colonia, decise di abbandonare gli studi universitari di filosofia e iniziò a dedicarsi all’arte. Quindi, si trasferì a Parigi nel 1913 e successivamente i suoi lavori furono esposti alla galleria Der Sturm a Berlino, a soli ventidue anni. Tra il 1919 e il 1920, Jean Arp contattò Ernst a Colonia e i due furono fondamentali per la formazione di una nuova ala internazionale del Dadaismo, un movimento d’avanguardia nato a Zurigo che rigettava qualsiasi forma di logica, ragione e estetica del capitalismo moderno, esprimendo piuttosto l’assurdità, l’irrazionalità e protestando contro la borghesia attraverso le loro opere. I due si erano già incontrati a Colonia nel 1914, ma Ernst dovette partire per servire l’esercito tedesco nella Prima Guerra Mondiale alla fine della quale, tornando all’arte, approfondì il Dadaismo di Zurigo e i dipinti di De Chirico e Klee.

I primi dipinti di Ernst trovarono le proprie radici nelle fantasie tardo gotiche di Dürer, Grünewald e Bosch. L’artista fu anche molto affascinato dal Romanticismo tedesco nelle macabre forme di Klinger e Böcklin. Questa “qualità gotica” (nel senso esteso del termine) rimase la più consistente caratteristica delle fantasie di Ernst. Tra il 1919 e il 1920, un periodo straordinariamente produttivo, si dedicò ai collage e ai fotomontaggi che dimostrarono una genialità che suggeriva la metamorfosi o una doppia identità degli oggetti, un tema che sarebbe diventato centrale nell’iconografia surrealista. In un ingegnoso lavoro del 1920 intitolato “Figure ambigue”, Ernst inventò le sue personali forme meccaniche come sostituti del corpo umano. Come faceva frequentemente durante quel periodo, l’artista prese una pagina di un testo scientifico del 1914 che illustrava gli strumenti di chimica e biologia e, dipingendo sopra ad alcune aree e inserendo degli elementi suoi, trasformò gli occhialini e altri utensili di laboratorio in un paio di creature divertenti davanti a un paesaggio.

Durante l’inverno del 1920-21, Ernst e Arp collaborarono a dei collage intitolati “Fantagagas”, acronimo di “Fabrication des Tableaux garantis gasométriques”, in cui Ernst si occupava della parte illustrativa e Arp dei testi. Uno dei più celebri Fantagagas intitolato “Hier ist noch alles in der Schwebe (Qui tutto ancora fluttua)” rappresenta il disegno anatomico di uno scarafaggio che diventa, messo sottosopra, un vaporetto che galleggia sulle profondità del mare.

Alcuni Fantagagas furono spediti a Tristan Tzara a Parigi per essere pubblicati nel “Dadaglobe”. Ernst era stato a stretto contatto con il gruppo parigino dei Dada e con molti di quegli artisti che poi avrebbero sviluppato il Surrealismo. E nel momento in cui si trasferì di nuovo a Parigi nel 1922, egli aveva già creato le basi del vocabolario surrealista.

Nonostante la grande amicizia che univa Ernst e Arp, il loro approccio alla pittura, ai collage e alla scultura era profondamente diverso, il che portò Ernst, seguendo l’esempio di De Chirico e incrementato dalla sua immaginazione “gotica”, ad avvicinarsi ad un concetto molto più vicino a una branca del Surrealismo che utilizzava la Magia del Realismo, che era precisamente delineato con oggetti riconoscibili, sebbene distorti e trasformati, ma sempre caratterizzati da uno spietato realismo.

“L’éléphant Célébes” (1921) è un “collage pittorico” che fece da ponte fra lo stile dadaista e quello surrealista. Rappresenta un grottesco mostro meccanico con una coda/proboscide a forma di tubo, collegata a un teschio di mucca poggiato su un collare bianco candido. Il torso nudo di una donna senza testa richiama la bestia con un elegante braccio alzato. Sebbene ci siano delle nuvole dietro, la presenza di due pesci fa supporre che la scena sia ambientata in un fondale marino. Le immagini sembrano non essere collegate su un piano razionale, qualche figura è minacciosa (l’elefante) mentre altre sembrano messe lì a caso (il nudo femminile). “L’éléphant Célébes” è il risultato di un assemblaggio fatto con il subconscio. La forma tondeggiante del mostro era stata ispirata da un vaso africano per il grano che l’artista aveva visto su una rivista. L’opera risente dell’influenza metafisica di De Chirico, mentre il titolo è ispirato da un poemetto infantile derisorio che ha come protagonista appunto un elefante.

Ernst, che sperimentò una varietà di stili considerevolmente ampio, divenne una delle figure chiave del Surrealismo. Importante è il suo incontro con alcuni esponenti del Surrealismo come André Breton e Paul Éluard. Dalla collaborazione con quest’ultimo nascono due volumi “Les malheurs des immortels” e “Répétition” (1922). Nel 1925 Ernst diventa un partecipante a pieno titolo del nuovo nato movimento del Surrealismo. Quell’anno elabora il “frottage”, una tecnica di disegno e pittura basata sul principio dello sfregamento. Il “frottage” non forniva solo la base tecnica per una serie di disegni non convenzionali, ma intensificò la percezione di Ernst per le consistenze nel suo ambiente: legno, stoffa, foglie, malta, tappezzeria. Ernst applicò questa tecnica, combinandola con il “grattage”, che consisteva nel grattare con vari strumenti la pittura ancora fresca stesa sulla tela o altro materiale, nei suoi dipinti tra gli anni ’20 e ’30. Il dipinto “La Horde” del 1927 è indicativo dell’umore sinistro dei dipinti surrealisti di Ernst. Le mostruose figure che ricordano la forma di alberi sono tra le numerose premonizioni spaventose della conflagrazione che avrebbe colpito tutta Europa nella decade successiva.

Nel 1941, per fuggire al secondo conflitto mondiale, Max Ernst si trasferì a New York, dove collaborò alla rivista surrealista VVV: la sua presenza, insieme a quella di altri grandi rifugiati surrealisti, avrebbe avuto delle enormi ripercussioni sull’arte americana. La sua avversione verso il la nascita del nazismo trovò la massima espressione nel dipinto “L’Europa dopo la pioggia” che è stata adeguatamente decritta come un requiem per l’Europa devastata dalla guerra. L’uccello antropomorfo, che sembra essere l’unico soggetto del dipinto, per alcuni rappresenta la guerra mentre per altri è Ernst stesso, un Loplop, una creatura di fantasia creata da Ernst come sostituto della sua immagine.

Nel dipinto “Surrealismo e pittura” del 1942, che è anche il titolo di un libro di Breton, si vede una creatura simile ad un uccello, fatto di tondeggianti sezioni anatomiche umane, serpenti e testi di uccelli. Il mostro, dipinto con tonalità tenui, sta dipingendo a sua volta un quadro astratto quasi in modo automatico.

Dopo il primo matrimonio con Peggy Guggenheim, si trasferì in Arizona con al seconda moglie, l’artista Dorothea Tanning, dove lavorò instancabilmente, sperimentando nuove forme espressive e sviluppando un profondo interesse per l’arte degli indiani Zuni e Hopi e creò una serie di figure frontali intitolato “Il re gioca con la regina”(1944), che prendeva spunto dai suoi diversi interessi nell’arte dei Nativi Americani, della scultura africana, Picasso e talvolta anche Duchamp.

Dopo essere rientrato in Europa, Max Ernst vinse il primo premio alla Biennale di Venezia nel 1954. Morì a Parigi il primo aprile del 1976.

Valentina Becchetti

Valentina Becchetti nasce a Roma nel 1977. Dopo aver visto la tomba di Ilaria Del Carretto di Jacopo della Quercia nel 1985, la storia dell’arte diventa la sua passione. Si laurea alla John Cabot University in Art History e successivamente prende un Master presso il Sotheby’s Institute of Art London in mercato dell’arte. Lavora al dipartimento mobili di Sotheby’s Londra, poi si ritrasferisce a Roma e lavora nell’ufficio mostre della Soprintendenza del Polo museale a Roma, con il professor Giorgio Leone. Successivamente è direttore scientifico presso una delle più importanti Gallerie d’arte di Roma e d’Europa.

ArteValentina Becchetti

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