È estate. I locali sono gremiti di giovani che non vedono l’ora di provare cocktail sempre più esotici e innovativi. Anche le case produttrici non hanno perso l’occasione di conquistare nuove fasce di mercato realizzando mix sempre più arditi di prodotti in bottiglia. Pochi, però, sanno che la moda di fare cocktail stravaganti risale all’epoca del proibizionismo. Il 17 gennaio 1920, negli USA, iniziò il proibizionismo. La legge proibiva, tra l’altro, la produzione e il consumo di bevande che contenevano più di una quantità minima di alcol. Inutile dire che l’impatto su questo comparto economico fu devastante. Il numero di distillerie chiuse causò danni notevoli all’economia del paese. Perfino le molte birrerie dovettero dichiarare fallimento. Tutto questo ebbe due conseguenze. La prima fu che si diffuse a macchia d’olio un mercato clandestino di distillerie illegali. Il secondo fu la nascita dei cocktail.
Molti dei distillati realizzati illegalmente avevano in realtà odori e sapori ripugnanti. Gran parte del liquore “bootleg” che girava faceva venire il voltastomaco. Nacquero anche migliaia di distillerie clandestine. In quel periodo, l’Ufficio del proibizionismo sequestrò quasi un quarto di milione di alambicchi illegali ogni anno. Ma più ne sequestrava più ne spuntavano. Come alternativa ai distillati si diffuse anche l’utilizzo di alcol industriale. Era questo, infatti, il tipo di alcol più diffuso. Un prodotto non molto diverso da quello usato per produrre inchiostro, profumi e combustibile per fornelli. Bastava un litro di alcol industriale per produrre circa tre litri di finto gin o altrettanto finto whisky. Il fatto che la gente avrebbe cercato di utilizzare questi stratagemmi non era sfuggito agli autori del Volstead Act, la legge emanata per attuare il 18° emendamento. Per questo decisero che l’alcol industriale venisse denaturato (cosa che avviene ancora oggi – anche in Italia – ma non per evitare il consumo quanto per evitare che si possa eludere la mannaia del fisco sugli alcolici). Per evitare che la gente utilizzasse alcol denaturato lo stesso venne (e viene tuttora) adulterato con sostanze chimiche che lo rendono inadatto al consumo.

[proibizionismo negli USA fra il 1920 e il 1933]
Per rendere bevibili questi prodotti e, al tempo stesso, per fornire agli acquirenti un modo discreto di consumarli si diffuse il movimento dei cocktail artigianali: fu l’unico modo per rendere questi alcolici tollerabili ai consumatori e, al tempo stesso, per nascondere alle autorità l’uso di alcol industriale. Secondo alcune stime, circa un terzo dei 150 milioni di galloni di alcol industriale prodotti nel 1925 sarebbero stati utilizzati per produrre alcolici da destinare al consumo umano.
Ancora una volta non ci volle molto per trovare un escamotage: i contrabbandieri aumentarono la produzione di alcol di contrabbando e trovarono modi per rimuovere o neutralizzare gli adulteranti. Questi sistemi, però, permettevano di realizzare alcolici dal sapore assai sgradevole. Sia quello trattato che quello “fatto in casa” erano disgustosi: altro che “invecchiamento in botti di rovere” per tanti tantissimi anni, come vuole la tradizione. Si distillava di notte e nei boschi, lontani da occhi indiscreti. I miscugli adoperati dai moonshiners (i distillatori di frodo) utilizzavano prodotti poco affidabili per cercare di realizzare prodotti che ricordassero almeno lontanamente il sapore affumicato dello scotch. C’era chi aggiungeva olio di ginepro all’alcol grezzo. Altri mescolavano antisettici a base di catrame di legno. Venivano usati tanti ingredienti. Spesso aromatizzati o dolci, ma molte volte pericolosi per la salute dei consumatori.
Tra i prodotti più diffusi (oltre al whisky) c’era il finto gin. Per due motivi. Il primo era che non ci voleva molto per produrlo: bastava un po’ di alcol diluito con acqua, al quale aggiungere glicerina e olio di ginepro e il prodotto finale era pronto. Il secondo era che questo surrogato del gin era facilmente utilizzabile in molti dei cocktail così diffusi durante il proibizionismo. Come il Bee’s Knees a base di gin e miele o il Last Word, che mescolava gin con Chartreuse e estratto alla ciliegia. Cocktail realizzati al momento nei quali non era facile per chi voleva fare controlli capire la quantità di alcol realmente utilizzata. Anche il rum divenne una popolare bevanda proibizionista. E anche in questo caso, i barman non mancarono di prodigarsi inventando cocktail come Mary Pickford a base di rum e succo di pompelmo rosso.
In poco tempo, per poter utilizzare alcol anche a casa, si diffuse la moda dei cocktail domestici. La birra e il vino erano poco disponibili e in genere piuttosto cari. Così i consumatori decisero di accompagnare le cene con cocktail creativi. In poco tempo si decise di rinunciare del tutto alle cene, ospitando cocktail party alla moda. Da allora i cocktail sono diventati sinonimo di America come il vino era sinonimo di Francia e Italia
Poi l’era del proibizionismo finì. E cono essa la mania di fare cocktail. Solo alla fine del 1980, baristi e ristoratori cercarono di ricreare l’atmosfera dello speakeasy così diffusa ai tempi del proibizionismo. Tornarono di moda i cocktail creativi, i bartender divennero delle superstar e i menu dei cocktail cominciarono ad allungarsi e a diffondersi in tutto il pianeta (anche grazie alla diffusione di nuovi ingredienti esotici come lo sciroppo di zucchero aromatizzato ai funghi).
Bevande che spesso non si sa cosa contengono e che in alcuni casi sono non meno pericolose di quanto non fossero un secolo fa: il tasso alcolico è elevato e nascosto da altri sapori. Per questo molti (soprattutto i più giovani) non capiscono quanto alcol stanno ingurgitando passando da un cocktail all’altro, magari d’estate, con la scusa di bere qualcosa di dissetante.