Quando si parla di schiavitù, solitamente si pensa ad una piaga del passato. Al massimo, a casi sporadici di sfruttamento nei paesi sottosviluppati. Niente di più sbagliato: la schiavitù è una piaga sociale ancora aperta. È diffusa più di quanto si pensa anche in Paesi “sviluppati” come gli Stati Uniti d’America. Nella nazione più ricca del mondo, sono molte le persone costrette a svolgere lavori sottopagati o contro la loro volontà. Nell’agricoltura, nell’industria e in molti altri settori.
Persino il Dipartimento di Stato ha dovuto ammettere che gli Stati Uniti d’America sono un “Paese di origine, transito e destinazione per uomini, donne e bambini sottoposti a lavoro forzato, schiavitù per debiti, servitù involontaria e traffico sessuale”. Forme di sfruttamento che i ricercatori del progetto Polaris descrivono come una “schiavitù moderna che esiste in tutti gli Stati Uniti”. Molti i settori in cui ciò avviene. Anti-Slavery International descrive i lavoratori agricoli come i “lavoratori più poveri e più sfruttati nell’economia statunitense”: spesso non beneficiano di molti dei diritti garantiti agli altri lavoratori americani, non hanno alcuna assicurazione sanitaria, congedo per malattia, pensione o sicurezza sul lavoro.
Ma la più terrificante forma di schiavitù si verifica nelle carceri. Sono oltre 2,2 milioni le persone detenute in prigioni statali, federali e private negli Stati Uniti. Quasi tutti i detenuti normodotati sono impegnati in qualche modo in qualche forma di lavoro per ridurre i costi di gestione delle carceri. E non solo.
Sulla carta, gli Stati Uniti avrebbero dovuto abolire la schiavitù con il Tredicesimo emendamento, approvato del 1865. Ma il Tredicesimo emendamento vieta la schiavitù ad eccezione delle persone che sono state condannate per reati penali. Nel 1930, con la Convenzione sul lavoro forzato, del 1930, l’ILO ha escluso i detenuti dalla sua definizione di lavoro forzato, consentendo, però, “qualsiasi lavoro o servizio richiesto a qualsiasi persona a seguito di una condanna in un tribunale” purché il lavoro sia eseguito da un’autorità pubblica (art.2).
E negli USA queste forme di servitù involontaria sono più che attive. Oggi, il lavoro forzato “come punizione per il crimine per il quale la parte deve essere stata debitamente condannata, esiste negli Stati Uniti o in qualsiasi luogo soggetto alla loro giurisdizione”.
La maggior parte dei detenuti sono impiegati in lavori per la manutenzione delle carceri. Ma un numero significativo lavora per produrre beni o eseguire servizi per società private, organizzazioni senza scopo di lucro e agenzie statali o federali che collaborano con le carceri. I detenuti generalmente non vengono remunerati o al più ricevono una miseria. A volte, come “paga” dei premi, ricevono crediti di tempo, riduzioni delle pene detentive e rilasci anticipati sotto supervisione obbligatoria. In Georgia, in Arkansas, in Alabama o in Texas. É qui che si trova la più grande popolazione carceraria degli Stati Uniti (oltre 140.000 persone). Il Dipartimento di giustizia penale del Texas utilizza molti detenuti per lavori non retribuiti. Manodopera a costo quasi zero che permette di gestire giri d’affari a nove zeri. secondo un recente studio, complessivamente, ogni anno, il lavoro carcerario negli Stati Uniti consentirebbe di generare 11 miliardi di dollari in beni e servizi.
Pat Biegler, direttore del dipartimento dei lavori pubblici della Georgia, ha affermato che il sistema di lavoro carcerario consentirebbe al Dipartimento carcerario un risparmio di circa 140.000 dollari a settimana. Solo il più campo di lavoro carcerario della contea di Columbus, in Georgia, la prigione della contea di Muscogee, permette all’amministrazione comunale di risparmiare dai 17 ai 20 milioni di dollari all’anno.
Come si diceva, la maggior parte del lavoro svolto dai detenuti riguarda operazioni quotidiane delle carceri, serve a mantenere il sistema carcerario abbattendone i costi per le casse pubbliche (o per le aziende che hanno vinto l’appalto per la gestione dei centri di detenzione). Per questi lavori, nel migliore dei casi, la paga è di poche decine di centesimi l’ora, ma in alcuni stati questi lavoratori non ricevono nessun compenso. Il restante 15% dei lavoratori detenuti lavora per industrie carcerarie statali o lavori pubblici, svolgendo una varietà di lavori come la manutenzione delle strade, l’inserimento dati, la gestione dei call center e persino servizi antincendio. In California, dei 11.000 vigili del fuoco utilizzati dall’agenzia statale California Department of Forestry and Fire Protection (CAL FIRE) per contrastare gli incendi sempre più frequenti, 1.500 sono prigionieri di campi di conservazione di minima sicurezza supervisionati dal California Department of Corrections and Rehabilitation. Un lavoro rischioso per il quale i detenuti ricevono circa 2 dollari/ora. Un compenso ben diverso rispetto alla paga che spetta ai colleghi non detenuti per svolgere lo stesso lavoro (e con gli stessi pericoli).
Un rapporto pubblicato dall’American Civil Liberties Union (ACLU) e dalla Global Human Rights Clinic dell’Università di Chicago, parla di quasi 800.000 americani detenuti nelle carceri statali e federali costretti a svolgere lavori forzati durante il periodo di detenzione barre. “Oltre a lavorare in condizioni coercitive e arbitrarie, i lavoratori incarcerati nelle carceri statunitensi spesso lavorano per salari irrisori o per nessun salario”, ha rilevato l’ACLU. Oltre il 75% degli intervistati avrebbe subito azioni disciplinari se si rifiutava di svolgere determinati compiti. “Punizioni che possono includere la perdita dei diritti di visita per i propri cari e persino l’isolamento”, ha dichiarato ad Al Jazeera, Jennifer Turner, autrice principale del rapporto e ricercatrice dell’ACLU. Nel 2002, la Corte Suprema ha giudicato il caso di un detenuto dell’Alabama che era rimasto legato ad un palo sotto il sole per sette ore perché si era rifiutato di lavorare sul ciglio di una strada, nei campi o lungo i binari della ferrovia. Nel 2016, si è verificata la più grande rivolta delle prigioni d’America: 24mila detenuti si sono rifiutati di lavorare. Poche settimane fa, i detenuti dell’Alabama hanno scioperato di nuovo, paralizzando i servizi di pulizia del carcere.
Le autorità considerano “utile” questo sistema di sfruttamento moderno. Il Bureau of Prisons (BOP) degli Stati Uniti, che sovrintende alle carceri federali, ha dichiarato che il trattamento umano di coloro che sono in loro custodia è una “priorità assoluta”. Questi programmi di lavoro “riducono l’ozio dei detenuti, consentendo al contempo al detenuto di migliorare e/o sviluppare utili capacità lavorative, abitudini lavorative ed esperienze che aiuteranno nell’occupazione post-rilascio”.
Non sorprende, quindi, scoprire che il “settore” è in crescita: dal 1970, il numero di persone incarcerate negli Stati Uniti è aumentato del 700 per cento. Oggi la popolazione carceraria statunitense è la più numerosa al mondo (sia pro capite che come dato totale). E l’incarcerazione di massa potrebbe essere un modo per nascondere queste forme di lavoro forzato.
Anche l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (UNODC) ha affrontato il tema del lavoro carcerario. Lo ha fatto con le Regole di Nelson Mandela, che dovrebbero indicare gli standard minimi per il trattamento dei detenuti. La regola 97 afferma che i detenuti “non devono essere tenuti in schiavitù o servitù” e che devono essere coperti dagli stessi standard salariali, sanitari e di sicurezza dei cittadini liberi. Ma negli USA alcune leggi sul lavoro, come il Fair Labor Standards Act, escludono i detenuti definendo il loro rapporto di lavoro come “penale” e non “economico”. In questo modo, i detenuti devono essere tutelati come gli altri lavoratori.
Un problema che riguarda prima di tutto le persone di colore e i migranti irregolari. “Dobbiamo prendere coscienza del fatto che lo stesso emendamento che ha liberato gli schiavi ha una clausola che ha permesso di renderli di nuovo schiavi – ha detto Robert Chase, docente della Stony Brook University che dirige il gruppo Historians Against Slavery – permettendo che uomini e donne afroamericani siano rimessi in schiavitù incarcerandoli e vendendo il loro lavoro alle corporazioni private”. Forme di sfruttamento che fanno comodo nei periodi di crisi: durante la pandemia di coronavirus, i governi statali negli Stati Uniti hanno fatto affidamento sul lavoro carcerario per produrre forniture mediche essenziali, come disinfettante per le mani e maschere per il viso.
Ora, qualcosa potrebbe cambiare: Tennessee, Alabama, Louisiana, Oregon e Vermont starebbero pensando di abolire il lavoro per i detenuti. Ma si tratterebbe di eliminare un sistema che fa comodo a molti. Nei mesi scorsi, in California, non è stata accolta una proposta che avrebbe abolito la servitù involontaria. Il motivo? Avrebbe costretto l’amministrazione statale a remunerare i detenuti con salari minimi sindacali che sono ben maggiori di quelli attuali. Quindi le autorità hanno preferito dire no a questa proposta. E mantenere quelle che alcuni definiscono “niente di meno che il lavoro degli schiavi“.