
Uno degli effetti più negativi della globalizzazione è il trasporto di merci e beni di ogni tipo via mare. Una prassi che ha effetti collaterali di cui nessuno parla mai, come lo shipbreaking o il beaching.
Navi gigantesche (come quella che si è incagliata nello stretto di Suez poche settimane fa) che girano ininterrottamente per i mari finché è possibile. Ma, in media, una nave ha una vita utile di una trentina d’anni. Poi deve essere rottamata. Con costi enormi per le compagnie che, spesso, preferirebbero non doversi sobbarcare anche questi costi.
Un problema che, in Europa, è stato spesso oggetto di discussioni (delle quali, però, i media non hanno parlato quasi mai). Gli armatori europei possiedono circa il 35 per cento della flotta mondiale. Dal 31 dicembre 2018, il Regolamento UE sul riciclaggio delle navi impone a tutte le grandi navi marittime battenti bandiera di uno stato membro dell’UE di utilizzare un impianto di riciclaggio delle navi che deve essere “approvato” e “incluso nell’elenco europeo”. Purtroppo, però, come riconosce la stessa UE, “Gran parte delle navi viene smantellata in condizioni spesso dannose per la salute dei lavoratori e per l’ambiente”. In Europa, esistono strutture all’avanguardia esclusivamente o parzialmente coinvolte nel riciclaggio delle navi. Strutture specializzate che si trovano in Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Italia, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Spagna e Regno Unito. Ma servirsene ha costi elevati per gli armatori. Per questo, la maggior parte degli impianti ricicla navi di piccole e medie dimensioni. Solo pochi cantieri europei hanno sono in grado di riciclare grandi navi commerciali, come indicato in un rapporto pubblicato dalla piattaforma e dall’organizzazione membro T&E.
Per le navi più grandi sono ancora frequenti i casi di shipbreaking a di beaching. Molte di queste navi vengono rottamate grazie ad accordi di “pre-smantellamento” presi da mediatori senza scrupoli che comprano dagli armatori le navi ormai in disuso e le rivendono ai padroni dei siti al capo opposto del pianeta dove vengono rottamate quasi senza controlli per recuperare il ferro e l’acciaio degli scafi e tutto quello che è possibile. L’84 per cento delle navi demolite finiscono sulle coste di tre paesi asiatici: Bangladesh, Pakistan e India. È così che paesi ecologisti e paladini dei diritti umani riescono ad aggirare l’accordo dell’International Maritime Organization (in vigore dal 2015) che stabilisce che le grandi navi debbano essere bonificate, cioè private di tutti i materiali e i liquami tossici, prima di essere avviate verso i cantieri di demolizione.
Al momento opportuno, molte navi da dismettere vengono vendute ai “cashbuyer” (coloro che comprano in contanti) che battendo una bandiera non europea, ma di altri stati, non sono più costretti a rispettare i vincoli europei. In questo modo gli armatori restano non imputabili di nulla (non risulta che abbiano mandato alcuna nave a essere smaltita in questi inferni) e anche la loro immagine è salva. Le navi vengono trasferite in Bangladesh o in Pakistan o anche in India, dove vengono arenate (beaching) sulla spiaggia e “rottamate” da squadre di migliaia di lavoratori. Senza alcuna attenzione per l’ambiente marino e per lo smaltimento dei rifiuti tossici o per la sicurezza stessa dei lavoratori.
Secondo un rapporto del 2016, ogni anno, più del 60 per cento delle navi che devono essere rottamate finiscono in questi paesi dove vengono demolite, pezzo dopo pezzo, “manualmente” senza l’uso di enormi macchinari, solo con attrezzi rudimentali.
Qui, tra salari da fame, regole per la sicurezza dei lavoratori inesistenti e zero attenzione ai problemi ambientali, vive uno dei tanti lati oscuri della globalizzazione. Un modo per distogliere da questo problema l’attenzione dei media e della gente dei paesi “sviluppati”. Consumatori ai quali non importa sapere che fine fanno plance, eliche gigantesche, timoni e catene, adagiati sui fondali bassi e sabbiosi pieni di fango e liquidi oleosi, intorno a scheletri di vecchie petroliere, navi porta container e transatlantici.
Sono migliaia i lavoratori impegnati in questo settore, schiavi moderni costretti a lavorare per turni di 12-14 ore al giorno, senza sosta, senza alcuna protezione, senza limiti d’età, rischiando la vita tra le sostanze tossiche rimaste nei serbatoi delle imbarcazioni, ricevendo in cambio una paga minima che per la maggior parte di loro non basta neanche per sopravvivere.
Inutile dire che i rischi per la loro salute sono pazzeschi. Ma lontani migliaia di miglia (nautiche) della loro vita non sembra importare a nessuno. La morte di uno di loro non fa notizia. Se ne parla poco. Anche quando i parenti decidono di portare in tribunale i responsabili della morte del loro congiunto. Nelle aule dei tribunali occidentali, le forze in campo sono troppo diverse perché si possa parlare di giustizia. Poche le eccezioni. Come quella dei giorni scorsi: Hamida Begum, moglie di Khalid Mollah morto nel 2018, mentre lavorava alla demolizione di una petroliera da 300.000 tonnellate sulla spiaggia di Chittagong, in Bangladesh, è riuscita a citare in giudizio la compagnia di navigazione Maran (Regno Unito) puntando i riflettori giuridici sulle pratiche ambientali, sanitarie e di sicurezza notoriamente carenti in Bangladesh.
Casi isolati più unici che rari. I dati ufficiali (ammesso che di ufficialità si possa parlare in un mondo dove regna il lavoro in nero) parlano di 216 lavoratori morti negli ultimi anni nei cantieri navali di Chittagong, sette nei primi mesi del 2021. Incalcolabile il numero dei lavoratori che hanno subito disabilità o che sono rimasti gravemente feriti.
Una delle maggiori associazioni internazionali che opera proprio nel contrasto a queste forme di moderna schiavitù, parla di centinaia e centinaia di morti e un numero incalcolabile di feriti per rottamare 6876 navi dal 2009 ad oggi.
Un giro d’affari sporco, nero come i residui di petrolio incrostati nelle cisterne, spesso macchiato del sangue di lavoratori innocenti, molti dei quali bambini. Sono migliaia gli adolescenti che lavorano nei cantieri navali in Bangladesh dove, secondo la legge, sarebbe illegale impegnare bambini e lavoratori adolescenti in lavori pericolosi (come la demolizione delle navi). Ma la realtà è diversa: uno studio del Dr. Muhammod Shaheen Chowdhury, professore di diritto all’Università di Chittagong, parla di un 13 per cento dei lavoratori con meno di 18 anni. La maggior parte di loro lavora come aiutanti di taglierina (assistono gli operai che utilizzano torce a gas per tagliare pezzi di ferro) o come “spazzini” (rimuovono il fango dai pezzi della nave). Alcuni lavorano sulla riva, dove i pezzi più grandi delle navi vengono tagliati in piastre più piccole, altri lavorano direttamente sulle navi dove è alto il rischio di inalare fumi altamente tossici in caso di incendio. Anche per quelli che lavorano come spazzini l’ambiente è maledettamente malsano: i fanghi spesso sono tossici e causano malattie della pelle (specie considerando che quasi mai i bambini incaricati di “spazzare” sono protetti con stivali o altro. Il tutto per turni di lavoro da 14 a 15 ore o durante la notte (spesso gli adolescenti sono impiegati in turni di notte per evitare di essere scoperti durante le ispezioni.
Di loro non si parla mai. Nessuno, comprando uno dei tanti oggetti o alimenti che hanno viaggiato sui mari di tutto il mondo prima di giungere nei nostri supermercati o nei grandi magazzini, pensa che il “buon prezzo” di quell’oggetto è possibile solo grazie allo sfruttamento e alla schiavizzazione di un altro essere umano, spesso di un adolescente, che, per guadagnare pochi spiccioli, ha accettato di rischiare la propria vita. È il lato oscuro della globalizzazione, della delocalizzazione, della produzione di beni e alimenti all’estero: i destinatari finali non sanno o fingono di non sapere cosa c’è dietro quello che comprano o mangiano. A loro interessa solo avere prezzi sempre più bassi. Ai produttori interessa vendere con costi sempre più bassi. Per il resto, a nessuno interessa sapere cosa c’è dall’altro lato della medaglia: vite umane distrutte, diritti umani (prima ancora che dei lavoratori) cancellati e nuove forme di schiavitù in mezzo a livelli di inquinamento impressionanti. Basta salvare la coscienza e adottare norme locali che promettono di salvaguardare l’ambiente e i diritti dei lavoratori. E poi sfruttare i “benefici” della globalizzazione.