Nei giorni scorsi, il Pontefice ha lanciato un accorato appello per i migranti che muoiono in mare nel tentativo di attraversare il Mar Mediterraneo. Nemmeno una parola, invece, sui Rohingya. Eppure, anche loro sono “migranti”. E anche loro sono perseguitati. E muoiono in mare nel tentativo di raggiungere un paese dove vivere.
L’ultimo disastro è avvenuto solo pochi giorni fa (ma molti media, distratti dal problema della scelta dell’allenatore della nazionale di calcio, hanno dimenticato di parlarne): almeno 17 persone sono morte (e più del doppio risultano disperse) dopo che il barcone sul quale cercavano di raggiungere le coste della Malesia si è capovolto. I cadaveri di molti di loro sono stati spinti dalle correnti sulle limpide spiagge del Myanmar. Uno scenario raccapricciante che non ha colpito e attirato l’attenzione dei media occidentali. A denunciare l’evento Bya Latt, portavoce del gruppo di soccorso Shwe Yaung Matta Foundation. Da secoli, ormai, i Rohingya, minoranza musulmana nel Myanmar (paese con una forte maggioranza religiosa buddista) cercano di trovare un posto dove vivere. Secondo diverse associazioni per i diritti umani, i Rohingya sono tra le persone più perseguitate al mondo. La loro tragedia ha origini antiche. Secondo alcuni risalirebbe a prima del colonialismo britannico. Gli inglesi favorirono l’ingresso nel paese di migranti da impiegare nelle coltivazioni di riso. Molti Rohingya entrarono in Myanmar come parte di queste politiche.
Tra il 1871 e il 1911, la presenza musulmana aumentò notevolmente. I britannici promisero ai migranti un territorio in cui vivere e dove praticare liberamente la propria religione. Ma non lo fecero mai. Nel 1948, il Myanmar ottenne l’indipendenza dagli inglesi. Ritenendo che i Rohingya potessero essere un pericolo (e favorire il ritorno dei britannici), il nuovo governo li classificò come stranieri. Nel 1950, i Rohingya organizzarono una rivolta contro le politiche del governo chiedendo il riconoscimento della cittadinanza. Ma le loro proteste furono sedate con la forza. Da allora, governo dopo governo, per i Rohingya la situazione è peggiorata sempre di più. I vari governi che si sono succeduti hanno considerato questo gruppo minoritario una minaccia. Per questo, hanno negato la cittadinanza ai Rohingya, continuando a considerarli stranieri.
Nel 1977, l’esercito lanciò una campagna nazionale per registrare tutti cittadini ma i Rohingya furono esclusi con delle scuse. Nel 1982, venne emanato il Citizenship Act che peggiorò la situazione: la legge, infatti, prevedeva che, per essere riconosciuto “cittadino”, una persona doveva dimostrare di avere antenati appartenenti ad una razza o ad un gruppo nazionale presente in Myanmar prima del dominio britannico. Cosa impossibile per i Rohingya: pur essendo presenti in quel paese dal XII secolo, erano stati sempre classificati come immigrati. Tra il 1991 e il 1992, più di 250.000 Rohingya tentarono di fuggire in Bangladesh cacciati dall’esercito. Da allora, la loro fuga non si è mai fermata.
Dopo la liberazione e l’ascesa al potere di Aung San Suu Kyi, leader politico del Myanmar, si sperò che la difficile situazione dei Rohingya potesse cambiare. Invece, il suo comportamento nei riguardi dei Rohingya fu deludente. Politicamente preferì voltare lo sguardo da un’altra parte e fingere di non vedere le violenze che l’esercito perpetrava sui Rohingya. Questo non è bastato a evitare una nuova dittatura militare. E nel 2017, il nuovo governo militare costrinse 750.000 Rohingya a oltrepassare la frontiera spesso con le maniere forti: furono innumerevoli gli atti di violenza registrati.
Amnesty International ha paragonato le condizioni di vita dei Rohingya nel Rakhine all’apartheid o a forme di segregazione razziale istituzionalizzata. Secondo i dati di Human Rights Watch, solo nel 2022, sarebbero almeno 350 i Rohingya morti o scomparsi in mare. A dicembre, 180 rifugiati Rohingya sono morti dopo che la loro barca è affondata nel Mare delle Andamane. Secondo un Rapporto della missione dell’OHCHR (pubblicato l’11 ottobre 2017 dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani), l’esercito ha iniziato un processo “sistematico” per cacciare centinaia di migliaia di Rohingya dal Myanmar. Stando ai rapporti delle Nazioni Unite, oltre 700.000 persone sarebbero fuggite per rifugiarsi nel vicino Bangladesh da settembre 2018. Lo stesso mese, una commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite sul Myanmar ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che almeno 392 villaggi Rohingya nello Stato di Rakhine sono stati rasi al suolo dal 2017. Un dato noto: già nel dicembre 2017 Human Rights Watch aveva scoperto centinaia di villaggi Rohingya bruciati e distrutti dall’esercito. Lo scorso anno, al termine di una visita nel Myanmar e ai campi Rohingya vicino al confine, l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha chiesto al primo ministro del Bangladesh, Sheikh Hasina, di fare in modo che i rifugiati potessero tornare in Myanmar. Le Nazioni Unite hanno affermato che il loro rimpatrio doveva essere volontario e dignitoso, ma che sarebbe avvenuto solo a patto che le condizioni al confine e in Myanmar fossero sicure. Cosa praticamente impossibile. Le autorità del Rakhine, la regione dove vivevano in Myanmar, hanno isolato i Rohingya dalla società e dai visitatori internazionali. I pochi che sono riusciti a parlare con inviati delle Nazioni Unite sono stati arrestati e/o picchiati per aver raccontato le loro storie.
Le Nazioni Unite hanno definito i Rohingya il gruppo minoritario più perseguitato al mondo e hanno descritto le atrocità delle autorità del Myanmar come “pulizia etnica” (quando un gruppo rimuove un’altra comunità etnica o religiosa attraverso la violenza). Alcune forme di persecuzione sarebbero addirittura “codificate” da leggi (alle coppie Rohingya, ad esempio, non è permesso di avere più di due figli). Oggi, i Rohingya sono forse la più grande comunità “apolide” del mondo. Cosa, questa, che li rende più vulnerabili: non hanno diritto ad alcuna protezione legale, sono privi di diritti fondamentali come l’accesso ai servizi sanitari, all’occupazione e all’istruzione. Quest’ultimo aspetto ha peggiorato la situazione: il tasso di analfabetismo che tra i Rohingya è del 80 per cento. Senza status legale, non possono andare a scuola, viaggiare o acquistare proprietà. La polizia può arrestarli e imprigionarli. Ma parlare di processi equi per persone che giuridicamente non esistono è utopia. Come avviene per i migranti dall’Africa, ogni anno decine di migliaia di loro scappano dai campi profughi in Bangladesh e Myanmar e intraprendono viaggi pericolosi in cerca di una vita migliore nei paesi a maggioranza musulmana della Malesia e dell’Indonesia.
In tutto questo tempo, il ruolo dei media è stato cruciale. Molti giornalisti che hanno cercato di documentare la persecuzione dei Rohingya sono stati attaccati (anche fisicamente). Secondo Aung Zaw, fondatrice ed editrice di Irrawaddy Magazine, ad alcuni giornalisti birmani sarebbe stato suggerito di usare cautela o ignorare completamente la questione dei Rohingya. Una forma di autocensura, secondo la Zaw, legata alle pressioni internazionali sui Rohingya. Anche il Papa pare abbia deciso di non parlare della loro storia. Non perché musulmani: anche molti dei migranti dall’Africa lo sono. Forse per quella forma di “selezione mediatica” oggi così diffusa per cui di certi argomenti semplicemente “non si parla”. Come se non esistessero…invece esistono.
Sono centinaia di migliaia gli uomini, le donne e i bambini da decenni perseguitati e vittime di violenze. Anche se di loro non si parla.