Quello che sta avvenendo in Afghanistan non solo rischia di lasciare un segno che rimarrà a lungo sui libri di storia, ma potrebbe addirittura cambiare gli equilibri geopolitici globali. E portare molti a porsi domande le cui risposte, fino ad ora, sembravano scontate.
Come è stato possibile che a vincere in Afghanistan siano stati i talebani e non le più grandi potenze mondiali? Dove hanno trovato i soldi per finanziare una guerra che va avanti da un ventennio (la più lunga in assoluto nei tempi moderni, fatta eccezione quella tra Pakistan e India)? E perché le maggiori potenze mondiali hanno speso tutti questi soldi per una guerra che poi hanno inspiegabilmente accettato di perdere?
A parte la perdita incalcolabile in termini di vite umane (su entrambi i fronti e tra i civili), i costi economici di questa guerra lasciano a bocca aperta. Secondo fonti attendibili, per rifornirsi armi, armamenti, mezzi e per finanziare le missioni in Afghanistan gli USA avrebbero speso quasi mille miliardi di dollari, 30 il Regno Unito, 19 la Germania e solo (si fa per dire) 8,7 l’Italia. Somme che non sarebbero state giustificabili nemmeno con i “vantaggi” derivanti dalla ricostruzione delle zone di guerre in caso di vittoria. Spese incomprensibili se si considera non solo il debito pubblico record mondiale e in crescita negli USA, ma anche la necessità di utilizzare questi fondi per risolvere problemi interni ben più impellenti. Eppure, non uno ma una mezza dozzina di governi hanno preferito buttare migliaia di miliardi di dollari in una missione fallimentare. E non da ora, dopo l’avanzata dei talebani, ma già prima quando il governo USA aveva deciso di ritirare armi (mai detto fu più pertinente) e bagagli dall’Afghanistan.
Quanto sta avvenendo a Kabul è un fallimento anche per le strategie militari e geopolitiche di quelli che da decenni sono considerati i paesi più “sviluppati” del pianeta. Gli stessi che, da soli e tutti insieme, non sono riusciti a far fronte ad un gruppo di rivoltosi estremisti che hanno finanziato la propria guerra coltivando e vendendo oppio e derivati. L’Afghanistan è un paese poverissimo: nella classifica del FMI in base al PIL pro capite, è 182esimo su 192, con 541 dollari l’anno a persona. Mediamente i suoi abitanti vivono al di sotto la soglia di povertà estrema definita dalle Nazioni Unite. Eppure i talebani non hanno avuto problemi a finanziare la propria guerra durata decenni: i costi sono stati sostenuti grazie alla crescita esponenziale della coltivazione di papavero da oppio e alla vendita dei suoi derivati in gran parte proprio sui mercati occidentali.
Negli anni, in Afghanistan, la produzione di papavero da oppio è cresciuta in modo inverosimile: nel 2020, la superficie destinata alla produzione di oppio è passata da 163mila a 224mila ettari. Anche un rapporto dell’UNODC ha sottolineato che la produzione di oppio “rappresenta la fonte di reddito più significativa per i talebani”. I talebani hanno mostrato capacità strategiche ben al di sopra di quelle mostrate dalla controparte: hanno assunto il controllo di molti valichi internazionali (oltre a Zaranj, Spin Baldak verso il Pakistan, Islam Qala verso l’Iran, e Kunduz verso il nord del Tagikistan) per poter esportare i propri “prodotti”.
Blande le misure del governo centrale (i rari tentativi di convertire le coltivazioni in prodotti agricoli alimentari sono falliti miseramente). Le iniziative dei paesi alleati non hanno fatto nulla per impedire ai gruppi armati avversari di allargare il controllo e coltivare e produrre quella che, nel tempo, è diventata la loro prima risorsa per finanziare la guerra. Oggi, i talebani “guidano il mercato globale dell’eroina, oltre a alimentare il crescente problema della droga all’interno dell’Afghanistan e dei paesi vicini”, ha detto Jonathan Goodhand, professore alla SOAS University di Londra. Sono circa 6.300 le tonnellate di oppio prodotte ogni anno. L’85% dell’oppio mondiale e il 77% dell’eroina provengono dall’Afghanistan. É questo che permette loro di finanziare la “loro” guerra.
Tra le mille domande che la situazione attuale pone, almeno altre due sono fondamentali. La prima è “perché”. Se spendere miliardi di dollari aveva (forse) un senso per le missioni in paesi come l’Iraq o il Kuwait (tra i maggiori produttori di petrolio al mondo), la stessa cosa non può dirsi per l’Afghanistan.
Non si capisce il motivo per essere coinvolti in Afghanistan. Il paese non aveva identità nazionale, né lingua comune, pochissime risorse naturali, una rete stradale e elettrica medievale, nessuna economia nazionale, nessuna storia della società civile. Era un paese isolato e impoverito. La sua storia di paese mediorientali moderno (quella degli anni ‘70) era stata distrutta dalla prima rivoluzione. La lotta al terrorismo internazionale dopo l’attacco alle torri gemelle era una giustificazione che poteva essere (forse) accessibile fino alla cattura e all’uccisione di Osama Bin Laden. Dopo certamente no.
Ma gli americani cosa pensavano che sarebbe accaduto dopo la loro partenza dall’Afghanistan? Le norme occidentali quasi imposte (le minigonne non facevano più parte della vita in Afghanistan al di fuori di Kabul da decenni) avevano già lasciato il campo a una società molto conservatrice e tradizionalista. Come speravano di cambiare l’Afghanistan senza cambiare la visione del mondo della gente del posto? Agli afgani, le forze statunitensi sono sempre apparse come aliene sia dal punto di vista culturale che per usi e costumi. Mostrare i muscoli (in termini militari) non ha cambiato il modo di pensare di questa gente. E pensare che lo avrebbe fatto è stato un errore pacchiano.
Ma la questione più importante (e alla quale nessuno finora ha saputo o voluto dare una risposta) è un’altra: la decisione degli USA (seguiti da tutti i paesi sviluppati) potrebbe stravolgere gli equilibri geopolitici globali. Vedere che i paesi più forti, più ricchi e più sviluppati del mondo sono stati battuti da uno dei paesi più poveri in assoluto potrebbe far crollare il castello di carte che, da molti decenni, gli USA (e i loro alleati) hanno sostenuto fornendo l’immagine di paesi imbattibili ed economie forti. In un colpo solo, Biden non solo ha trasformato la sconfitta in una fuga ignominiosa, ma ha anche dimostrato l’incapacità di portare a termine il grottesco esperimento di costruzione di una nazione. Un errore che l’opinione pubblica americana potrebbe non lasciare passare senza chiedere un capro espiatorio.
Un fallimento che potrebbe addirittura arrivare a mettere in dubbio il modello di vita globale. Quel modello di vita che in Afghanistan è stato sconfitto non una, ma due volte (la prima dopo il conflitto con la Russia). E entrambe le volte da un sistema estremista e legato alle forme più dure di una religione che (secondo le statistiche) è in netta espansione in tutto il mondo.
Tutto questo potrebbe accelerare il processo (peraltro già avviato dal punto di vista economico) di spostamento del centro della politica mondiale a est: già oggi, l’Asia è il continente con il PIL maggiore. Ben al di sopra della somma dei PIL dei paesi americani. E anche dei PIL dei paesi dell’UE. Prendere coscienza che gli avversari economici possono essere battuti (e così facilmente), da un, paese povero potrebbe generare cambiamenti epocali che nessuno dei presidenti americani che si sono succeduti (neanche quelli che si sono vantati di aver vinto la guerra in Afghanistan) avrebbe mai pensato.