Non c’è paese al mondo il cui documento istitutivo non faccia riferimento alla “pace”. E non c’è governo o leader che non abbia detto e ripetuto più volte che il proprio obiettivo è la “pace”, dentro e fuori i confini nazionali.
La realtà è completamente diversa.
In un intervento al consiglio di sicurezza dell’ONU, la vice-segretaria della Nazioni Unite, Amina Mohammed, ha parlato di “6 paesi su 7 in tutto il mondo afflitti da sentimenti di insicurezza. Il mondo sta affrontando il maggior numero di conflitti violenti dalla seconda guerra mondiale. Due miliardi di persone, un quarto dell’umanità, vivono in luoghi colpiti da conflitti”! Una situazione grave, ma che sta peggiorando: Europa e Nato hanno in programma un “intervento” in diversi paesi africani. Inviare armi finanziate con il Fondo Europeo per la Pace (un controsenso in termini). L’invio di armi all’Ucraina è stata una forzatura degli accordi internazionali di pace. L’Ucraina non è un paese della Nato e non è un paese UE. E trattati europei non permettono di finanziare strumenti letali con fondi presi dal bilancio europeo. Ma ha creato un precedente grave. E l’idea di creare un fondo inter-governativo, il Fondo Europeo per la Pace, lo European Peace Facility (Epf) per “fare la guerra” ovunque sia possibile. Un tempo le guerre venivano fatte per conquistare dei territori e appropriarsi delle risorse naturali che possedevano (fino al Kwait). In qualche caso per la posizione strategica dei paesi attaccati. Da qualche decennio non è più così. L’affare non è solo conquistare, il vero affare è “fare la guerra” (ne parlammo in un libro dal titolo Finta democrazia pubblicato nel 2013). Non è un caso se da anni ormai gli USA non partecipano più in prima persona alle guerre ma mandano o vendono armi e armamenti. Non è un caso se la produzione di armi e armamenti è una delle voci di bilancio più floride del bilancio degli USA. Ecco, allora, che, incuranti delle promesse e dei proclami di “pace”, si fa di tutto per fare la guerra. O per far credere che è necessario “essere preparati” alla guerra. Come? Stipulando trattati di pace? No producendo armi sempre più potenti (e costose).
Di pochi giorni fa la notizia che Australia, Regno Unito e Stati Uniti d’America hanno raggiunto un accordo per la vendita di ben otto sottomarini AUKUS (dalle iniziali dei tre paesi che partecipano) a propulsione nucleare. L’accordo prevede anche che dal 2027, Regno Unito e Stati Uniti “ruotino” i propri sottomarini a propulsione nucleare attraverso HMAS Stirling vicino a Perth come parte di una spinta per intensificare l’addestramento degli australiani. Un affare stratosferico per chi produrrà queste armi di distruzione di massa: il costo dell’intera operazione dovrebbe aggirarsi intorno ai 370 miliardi di dollari, da oggi alla metà del 2050. Questo nella migliore delle ipotesi: raramente i bilanci previsionali sono rispettati (si pensi all’ “affare” F35). Il costo annuale per l’Australia sarà di almeno 9 miliardi di dollari all’anno. La giustificazione per questa spesa senza precedenti nella storia dell’Australia è la necessità di aumentare la potenza navale per contrastare “l’assertività” cinese soprattutto nel Mar Cinese Meridionale. Dopo aver siglato l’accordo, il presidente americano Joe Biden ha detto che le tre nazioni si trovano in un “punto di svolta nella storia” e che “forgiando questa nuova partnership, stiamo mostrando ancora una volta come le democrazie possono offrire, come la nostra sicurezza e prosperità e non solo per noi, ma per il mondo intero”.
Ancora una volta, parole come “democrazia”, “sicurezza”, “prosperità” per nascondere morte, distruzione e giri d’affari miliardari per le aziende che producono armi.
Un aspetto, decisamente importante, che riguarda questa corsa sfrenata alla guerra e agli armamenti è che raramente i paesi coinvolti in questa escalation di violenza globale chiedono il parere ai propri cittadini. Non solo per la somma stratosferica (alcuni obiettori alla misura hanno calcolato che, con quella cifra, in Australia sarebbe possibile dare un milione di euro l’anno a tutti gli abitanti non di una ma di tre città). Ma anche per le conseguenze. A cominciare dalle ricadute sull’ambiente. L’Australia ha detto che non arricchirà l’uranio o riprocesserà il combustibile esaurito dai sottomarini. Ma si è impegnata a gestire tutti i rifiuti radioattivi generati dai sottomarini all’interno del paese. “Ciò include i rifiuti radioattivi con livelli più bassi di radioattività generati dalle operazioni e dalla manutenzione quotidiana dei sottomarini”, si legge in una scheda informativa del governo. “E rifiuti radioattivi con livelli più elevati di radioattività, compreso il combustibile esaurito, che viene prodotto quando i sottomarini vengono dismessi alla fine della loro vita utile”.
Un argomento spinoso che sarebbe stato corretto condividere con tutti invece di decidere arbitrariamente. Se non altro per le ripercussioni che questa decisione potrebbe avere. Sarebbe la prima volta, infatti, che una disposizione del trattato di non proliferazione nucleare del 1968 viene utilizzata per trasferire materiale fissile e tecnologia nucleare da uno stato dotato di armi nucleari (i reattori dei sottomarini dovrebbero essere prodotti in UK) a uno stato “non armato”. Aspetto non secondario, il fatto che il paragrafo 14 del trattato consente che il materiale fissile utilizzato per uso militare non esplosivo, come la propulsione navale, sia esentato dalle ispezioni e dal monitoraggio da parte dell’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Questo potrebbe di fatto eliminare i controlli degli armamenti e stabilire un precedente gravissimo che potrebbe, in seguito, essere utilizzato da altri per nascondere l’uranio altamente arricchito, o il plutonio – il nucleo di un’arma nucleare – dalla supervisione internazionale. James Acton, co-direttore del programma di politica nucleare presso il Carnegie Endowment for International Peace, ha detto che si tratta di “un danno reale e concreto” all’accordo di non proliferazione. “La mia paura non è mai stata che l’Australia avrebbe abusato di quel combustibile, ma che altri paesi avrebbero invocato AUKUS come precedente per rimuovere il combustibile nucleare dalle salvaguardie”.
ICAN, la Coalizione internazionale per l’abolizione delle armi nucleari, vincitrice del premio Nobel per la pace 2017, ha dichiarato che la decisione dell’Australia di acquistare e costruire sottomarini a propulsione nucleare è un grave rischio di proliferazione che potrebbe essere vista a livello internazionale come un precursore dell’acquisizione di armi nucleari da parte dell’Australia. ICAN ha esortato l’Australia a firmare anche il Trattato delle Nazioni Unite sulla messa al bando delle armi nucleari. Un divieto ad oggi firmato da 68 stati in tutto il mondo e che sarebbe un segno tangibile della volontà dei governi di non volere la guerra. Purtroppo nessuna delle maggiori potenze mondiali (e dei paesi che dispongono di armi nucleari) ha mai accettato di firmare questo accordo. Segno inequivocabile che, al di là delle belle parole, al di là dei discorsi preparati dai ghost writers per media di parte, non c’è nessuna volontà di “fare la pace”. Anzi che è già in atto la corsa agli armamenti. Tornano in mente le parole della Mohammed alle NU: “Anche prima della pandemia di Covid-19… le proiezioni indicavano che entro il 2030 oltre l’80% degli estremamente poveri del mondo vivrà in Paesi fragili e colpiti da conflitti”. Guerre e povertà sono “profondamente intrecciate”. Per la vice di Guterres, “c’è solo una via per una pace duratura”. Una pace che nessuno dei paesi più influenti sembra volere. Il presidente della Peacebuilding Commission, Muhammad Abdul Muhith ha elogiato il rapporto “Our Common Agenda” dell’ONU e ha parlato della “necessità di migliorare il sostegno alle priorità nazionali di costruzione della pace”. E ha ribadito la richiesta di “finanziamenti adeguati, prevedibili e sostenuti per la costruzione della pace”. Nella speranza che, come sta avvenendo in Europa e in molti paesi, dietro la parola “pace” non si nasconda la voglia di fare la guerra.