Non è facile ricordare Giovanni Falcone dopo ventotto anni dalla strage di Capaci.
Costa fatica separare la pienezza della sua vita e della sua morte dalla tanta retorica e da molta ipocrisia che ogni anno ne soffocano la straordinaria normalità attraverso la saturazione mediatica che, puntualmente, si rinnova.
Giovanni Falcone non avrebbe gradito essere definito eroe, questa parola non gli piaceva ed era convinto che in realtà gli eroi non esistessero: credeva piuttosto che esistono persone comuni che si trovano a fronteggiare eventi eccezionali, rispetto ai quali non sono disposte a distogliere lo sguardo ma, piuttosto, ad affrontarne le conseguenze con gli strumenti del proprio mestiere. Così il soldato diventa eroe in battaglia, il giornalista scrivendo senza padroni, il magistrato cercando la verità, il pubblico funzionario operando per il bene comune, il sacerdote amando le persone che il Dio in cui crede gli ha affidato.
Dunque sottrarre Falcone ad ogni aureola artificiale ne rende concreto ed emulabile l’esempio da parte di quanti, senza per questo essere super uomini, possono seguirne la strada.
Non fare di Falcone un eroe restituisce ai più la possibilità di trasformare la quotidianità della propria azione professionale e civile in un atto, non eroico ma “normalmente” dovuto per il cambiamento della propria e dell’altrui realtà.
Falcone conosceva, come tutti, la paura della morte e della sofferenza. Ne aveva fatto esperienza indiretta attraverso la propria professione e la drammatica scomparsa di colleghi e collaboratori. La conosceva e la rispettava ma non la temeva. Negli ultimi mesi guardava ripetutamente le straordinarie sequenze del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, giocava anch’egli con la morte la partita a scacchi che aveva come posta la vita e, come il protagonista del film, si preparava a darle un’inimmaginabile sconfitta. Spesso ricordava nelle schive interviste rilasciate che è meglio morire una volta piuttosto che, come è destino del vigliacco, mille volte nella stessa vita.
Nella professione aveva visto, soprattutto negli anni di una magistratura “disattenta” e negazionista nei confronti della complessità del fenomeno mafioso, morire mille volte molti propri colleghi non alla vita ma alla dignità e alla verità. Li aveva visti sacrificare sia l’una che l’altra all’arroganza e all’ambizione e, lasciando intendere tale progressivo convincimento, ne aveva ricavato l’accusa di protagonismo e di ricerca della notorietà a tutti i costi, volta ad emarginarlo escludendolo da quella Direzione Antimafia che tanto era stata richiesta da Pio La Torre e da Cesare Terranova.
Credo che il momento in cui tutto ciò gli apparve con chiarezza fu proprio durante il fallito attentato alla villa dell’Addaura dove nel giugno dell’89 trascorreva alcuni giorni di riposo. In quella circostanza e dopo la drammatica esecuzione dell’agente Agostino e della giovane moglie Ida Castellucci appena tre mesi dopo, si rese conto che molti degli avversari che combatteva si nascondevano all’interno degli apparati cui egli stesso apparteneva. Quando comprese questo, lasciò capire che le “menti raffinatissime” non potevano risiedere in rozzi capi mafia che, seppur furbi e sospettosi, erano appena in grado di leggere e di scrivere.
E quando questa piena consapevolezza lo travolse distruggendo la fiducia nel suo stesso ambiente, comprese che era necessario andare proprio nel cuore dello Stato a cercare mandanti ed ispiratori di massacri, di inconfessabili connivenze e di storiche complicità.
Falcone probabilmente non sarebbe mai morto se fosse rimasto in Sicilia, ma l’attentato alla sua vita doveva avvenire in Sicilia e così fu. Proprio come era già avvenuto, esattamente dieci anni prima, per il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
La spietata liturgia dell’omicidio doveva essere eclatante, dimostrativa e soprattutto riconducibile alla mafia e non ad altri e, quindi, doveva avvenire in Sicilia e non altrove, dove, paradossalmente, sarebbe stato più facile. Ad essa doveva attendere un braccio armato che nascondesse, almeno agli occhi dei più, i veri mandanti e i veri moventi.
La mafia si prestò ad essere quel braccio, sapendo che avrebbe affrontato la successiva inevitabile repressione cui presto si sarebbe posto rimedio con patti scritti molto prima e il cui tradimento sarebbe poi stato all’origine degli attentati a Firenze e a Roma che servirono a ricordarli e, stavolta a farli mantenere, a chi li aveva prima contratti, poi non rispettati e oggi “negati”.
La morte e la vita di Giovanni Falcone vanno dunque lette insieme e non solo per la coerenza ideale che le legano, quanto piuttosto in un drammatico rapporto di causa ed effetto pertinente un livello istituzionale molto più elevato di quello per troppi anni preso in esame. Un omicidio di Stato, riconducibile alla lotta per la sopravvivenza di parte di una classe dirigente al tramonto, pronta a far patti con ogni genere di demone per garantirsi una nuova immunità nel mutato quadro domestico ed internazionale del potere.
Questa fu l’eredità pesante che Giovanni Falcone trasmise a Paolo Borsellino e il cui peso enorme si lesse negli occhi di quest’ultimo nei pochi mesi che lo separarono dal suo grande amico e che lo indusse a isolarsi da quei poteri che per anni hanno continuato a mantenersi tali senza grandi reali cambiamenti, celebrando ogni 23 maggio la data del proprio oscuro e inconfessabile successo.
Ma, come nel finale del film di Bergman morire per salvare gli altri non è mai sconfitta ma trionfo della vita, nella sua ultima partita a scacchi quel pomeriggio a Capaci Giovanni Falcone beffò la morte lasciando il messaggio che gli sarebbe sopravvissuto e che ora sancisce la vittoria di quella normalità che, nonostante gli fosse personalmente negata, per tutta la vita egli volle servire.