Sta destando scalpore ed apprensione la decisione del Tribunale Costituzionale polacco di non riconoscere il principio della prevalenza delle disposizioni dell’Unione Europea su quelle interne dei singoli paesi membri. Un duro colpo al processo di progressiva unificazione che rischia di rappresentare una nuova ferita dopo quella, ancora oggi incomprensibile di Brexit che molti britannici stanno ora rimpiangendo, anche per le ricadute finanziarie ed occupazionali nel Regno Unito del dopo pandemia.
Il governo polacco ha esacerbato lo scontro sullo stato di diritto con l’Unione europea chiedendo al Tribunale costituzionale, un organo considerato illegittimo, di verificare la compatibilità dei Trattati europei con la Costituzione polacca. Il tribunale ha ritenuto i Trattati incompatibili, affermando perciò la supremazia del diritto nazionale su quello comunitario. Questa rottura dell’ordinamento giuridico europeo può risolversi solo in tre modi: con una modifica della Costituzione polacca, con una modifica dei Trattati oppure con l’uscita della Polonia dall’Ue.
Nel frattempo ben dodici Paesi dell’Unione – Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Repubblica Slovacca – progettano di costruire muri e barriere per arginare il flusso dei migranti provenienti dalla rotta balcanica e, in un delirio di egoismo, pretendono addirittura che sia l’Unione a finanziarne la costruzione.
Gli ultimi a mettersi all’opera in ordine temporale, a causa degli afflussi dalla Bielorussia, sono stati Lituania e Polonia, ma vari Paesi Ue già possono vantare barriere di filo spinato, dai tempi della grande crisi migratoria del 2015-2016. Una richiesta di esborso rispedita al mittente dalla commissaria agli Affari interni Ylva Johansson, che dal Consiglio Ue a Lussemburgo, pur accettando l’idea della fortezza Europa (“ogni Paese ha diritto a difendere le proprie frontiere come crede, pur nel rispetto dell’acquis europeo”), ha respinto ogni ipotesi di stanziamenti comunitari. “Ci sono già molti altri progetti sul tavolo”, ha tagliato corto.
L’iniziativa ha trovato invece il sostegno pubblico della presidenza di turno slovena del Consiglio Ue, e in Italia è stata subito cavalcata da Matteo Salvini, in cerca di rimonta dopo la batosta delle amministrative: “Se ben 12 Paesi europei con governi di ogni colore chiedono di bloccare l’immigrazione clandestina, con ogni mezzo necessario, così sia. L’Italia che dice?”.
Roma a dire il vero si è tenuta ben alla larga dalla proposta dei dodici, preferendo piuttosto sollecitare Bruxelles sulle partnership con i Paesi terzi, in una lettera assieme agli altri componenti del gruppo dei Med5 (Spagna, Malta, Grecia, e Cipro). Servono “ulteriori sforzi in collaborazione con i Paesi di origine e transito su questioni di interesse comune”, con “progressi tangibili nei finanziamenti” e una “maggiore concretezza e certezza sul percorso” in tempi brevi, “giorni o settimane”, hanno scritto i Paesi della fascia Mediterranea, respingendo anche l’ipotesi di spacchettare il negoziato sul Patto per l’asilo, come proposto dalla presidenza di turno, più attenta agli aspetti della sicurezza che a quelli della solidarietà.
“L’Unione europea deve colmare il ritardo fin qui accumulato, sviluppando, in tempi rapidi e con azioni concrete, gli impegni assunti sul fronte dei partenariati strategici con i principali Paesi del Nord Africa, a partire da Libia e Tunisia”, ha insistito la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, subito rassicurata, o almeno in parte, da Johansson. “I piani d’azione sono quasi tutti pronti”, ha spiegato la svedese, ammettendo però che i “fondi comunitari sono limitati”. “Non possiamo spendere più soldi di quelli che sono stati stanziati dagli Stati membri”, ha avvisato la commissaria, in questi ultimi giorni divisa tra i tentativi di ottenere più impegni dai 27 per i reinsediamenti dei profughi afghani a rischio e le notizie di respingimenti violenti dei profughi ai confini di Grecia e Croazia. “I report pubblicati su quanto avviene sono scioccanti – ha chiarito Johansson -. Occorre un’indagine, ma quanto riportato sembra indicare un qualche tipo di orchestrazione della violenza alle frontiere esterne, e sembrano esserci prove convincenti di un uso improprio dei fondi europei, che devono essere approfondite”. Denunce su cui ora Bruxelles vuole vederci chiaro: ne va della “reputazione dell’Europa”.
La domanda allora è d’obbligo: dove va l’Europa mentre gli Stati Uniti si disimpegnano su molti scenari e il presidente cinese Xi Jinping annuncia esplicitamente di volersi riprendere l’isola di Taiwan, fingendo di ignorare cosa è accaduto ad Hong Kong, dopo l’illusoria promessa di “un Paese, due sistemi”?
Il debito che l’Europa ha con la Polonia non può essere misurato dai parametri finanziari dell’Unione, ma più alto ancora è il debito che la Polonia ha con la propria eredità culturale che oggi rischia seriamente di non onorare.
Il Paese possiede un patrimonio immenso di conoscenze e di sensibilità molteplici. Diciassette Premi Nobel tra cui Henryk Sienkiewcz, l’autore di Quo vadis? Isaac B. Singer, Wislawa Szymborska, Olga Tokarczuc, Lech Walesa, Andrew Victor Shally, Reinard Selten, Marie Curie, Maria Goeppert Mayer, Georges Charpak, Roald Hoffman. Un astronomo, Niccolò Copernico, ribaltò il mondo celeste e un Papa santo, tra i più duraturi ed efficaci nella storia millenaria della Chiesa e tra i leaders più influenti del mondo, contribuì a fare la stessa cosa con quello terreno che gli fu contemporaneo.
La storia millenaria del Paese è lunga e complessa e le sono state dedicate pagine di grande interesse che non sarà difficile per il lettore reperire anche sul web. Una buona guida alla lettura può essere rintracciata nel sito.
Qui interessa tentare di “isolare” il DNA di una nazione dal passato travagliato e in cui spesso hanno banchettato molte potenze europee a partire dalla sua prima configurazione statuale avvenuta nel X secolo sotto la dinastia dei Piast con il duca Mieceslao I che si convertì al Cristianesimo; il primo re della Polonia fu il figlio Boleslao. L’unità durò poco più di due secoli dopo i quali cominciarono le grandi spartizioni che avrebbero sfiancato il Paese, senza mai però indebolirne il desiderio di risorgimento e di unità soddisfatto nel XVI secolo sotto la dinastia degli Jagelloni, con Giovanni III Sobiesky.
Durò solo un secolo perché già alla fine del ‘700 il territorio venne spartito tra Austria, Prussia e Russia. Fu necessario attendere la fine della prima guerra mondiale perché, anche dietro le pressioni del presidente degli Stati Uniti Harold Wilson che ne definì il destino in uno dei famosi tredici punti, a Versailles si decidesse di farne una repubblica “cuscinetto” tra Germania e Russia. Ma il cuscinetto si trasformò presto in una noce che sarebbe stata schiacciata prima dalla Germania nazista e successivamente dall’ Unione Sovietica di Josif Vissarionovic Dzugasvili, l’attor tragico con nome d’arte Stalin, entrando a far parte del Patto di Varsavia.
La Polonia tornerà all’attenzione del mondo il 16 ottobre del 1978 con l’elezione al soglio pontificio di Giovani Paolo II, di cui l’incerta pronuncia del nome e cognome, Karol Wojtyla, da parte del Cardinale Pericle Felici tenne per qualche secondo il mondo con fiato sospeso, pensando che si trattasse del primo papa africano. Ma il cinquantottenne papa polacco fu il primo in molti altri ambiti tra cui, massimamente il contrasto ai totalitarismi ed a ciò che ne restava nel mondo e nel proprio Paese natale.
Il ruolo di grimaldello esercitato sotto così alta protezione dal sindacato dei lavoratori dei cantieri navali di Danzica guidato da Lech Walesa, i mille equilibrismi del generale Wojciec Jaruzelsky accompagnati dalla consapevolezza che l’Unione Sovietica stava per abbandonare al propri destino i paesi satelliti, contraddistinsero il decennio che portò nel 1990 all’uscita della Polonia dall’orbita sovietica e nel decennio successivo al suo ingresso nell’economia di mercato e nella NATO nel 1999, diventando membro dell’Unione Europea nel 2003 e tra i principali prenditori di fondi comunitari con i quali ha profondamente rinnovato il Paese sia sul piano infrastrutturale che economico, diventando meta ambita per molte imprese italiane favorite dal minor costo del lavoro e dalle allettanti politiche fiscali.
A gennaio del 2019 il Wall Street Italia ha riportato la dichiarazione del capo di gabinetto del primo ministro Mateusz Morawiecki, Mikal Dvorczyk secondo cui: “la data di adozione della moneta unica non ha nulla a che vedere con il processo di adesione all’UE” e, ad oggi, oltre il 63% della popolazione preferisce tenersi lo zloty piuttosto che fregiarsi dell’euro. (Fonte Eurobarometro).
Nonostante la favolistica cinematografica sia popolata di contesse dai nomi impronunciabili, da ufficiali di cavalleria e da esuli fieri e risorgimentali, la Polonia non ha mai amato l’Europa. Da essa le sono giunte divisioni, dolori ed umiliazioni ed anche per il suo passaggio al “mondo libero” è più grata al proprio santo conterraneo ed agli Stati Uniti di Trump piuttosto che alla Francia, alla Spagna o all’Italia e meno che mai alla Germania i cui modelli democratici le sono in parte estranei, anche a motivo della dichiarata laicità dello stato e di antichi livori non abbastanza dimenticati.
Il 90% dei polacchi si dichiara di fede cattolica e il turismo religioso è parte non piccola dei flussi finanziari provenienti dall’estero. Nonostante il formale ateismo, il sentimento religioso ha resistito anche negli anni più crudeli dello stalinismo, facendosi catacombale e non privo di martiri, dai cento otto durante il nazismo proclamati beati da Giovanni paolo II nel 1999 a Padre Padre Jerzy Popieluszco, assassinato nel 1984 da quattro funzionari della polizia politica, poi processati e condannati e innalzato agli onori degli altari da Benedetto XVI nel 2010.
La tradizione ebraica è quasi scomparsa in quanto a consistenza della popolazione a motivo dello sterminio perpetrato dai nazisti con gli Einsatzgruppen, i reparti speciali che ripulivano le retrovie da ebrei, comunisti, omosessuali ed oppositori del regime. Di notevole interesse è il romanzo Le Benevole (Les Bienveillantes) di Jonathan Littell pubblicato in italiano nel 2008 da Einaudi, dove in un clima da “caduta degli dei” quegli anni e quegli orrori sono narrati in prima persona da uno dei carnefici, il maggiore Maximilien Aue con forti richiami ai temi cari a Thomas Mann ed espressi in La Montagna Incantata, Morte a Venezia, Doctor Faustus. Quasi mille pagine tra incubi, trasgressioni e desiderio di un’impossibile redenzione.
Non si dimentichi infine che il nome del campo di concentramento di Auschwitz è traduzione tedesca del comune di Oswiecim, i cui abitanti, ritenuti complici omertosi dei nazisti, furono costretti dagli Alleati a dare nuova e più degna sepoltura alle centinaia di migliaia di salme di vittime dell’Olocausto ritrovate in sommarie fosse comuni. Né migliore fortuna ebbero gli ebrei sotto il comunismo sovietico che rinnovava così l’antica tradizione dei pogrom, facendo delle migliaia di richieste di emigrazione verso Israele una merce di scambio politico/diplomatica con gli Stati Uniti.
Nonostante i pochi superstiti, la traccia dell’ebraismo si respira in ogni angolo della Polonia e lo scrittore di lingua yiddish Isaac B. Singer, naturalizzato americano, ne è stato più volte il nostalgico cantore. Eppure, nel 2018 il premier Morawiecki ha sostenuto in Parlamento la penalizzazione dell’uso di espressioni che attribuiscono alla Polonia la responsabilità per l’Olocausto o per i crimini nazisti, come “campi di sterminio polacchi”, e nel 2021, norme che hanno posto limiti temporali alla rivendicazione dei beni confiscati ai sopravvissuti alla Shoah e i discendenti delle vittime. Per queste politiche la comunità ebraica ha accusato il suo Governo di perpetrare revisionismo storico ed Israele ha ritirato il proprio ambasciatore.
Fatta l’anamnesi, è ora di esaminare i sintomi e stilare la diagnosi di quanto sta accadendo in questi giorni. La prognosi è infausta.
Com’è noto, Polonia, Ungheria e, ad oggi, anche la Slovenia si dichiarano contrarie alla condizione posta dall’Unione circa il rispetto dei principali pilastri dello stato di diritto su cui essa stessa si fonda. Al riguardo, si veda il dettagliato rapporto di Amnesty International sulle violazioni accertate e che riguardano libertà di stampa, autonomia della magistratura, trattamento delle minoranze etniche, politiche di accoglienza dei profughi ed altro che hanno portato ad una procedura d’infrazione e ad un forte pronunciamento della Corte Europea di Giustizia entrambi avversi alla Polonia.
Ora che, anche in forza della crisi economica dovuta agli effetti della pandemia, i tempi si fanno più stringenti, i tre paesi, forti dei meccanismi di unanimità previsti per le decisioni europee, si mettono di traverso Alle perplessità dei “paesi frugali” nei confronti del “Belpaese” di cui ho scritto altrove si aggiunge ora un nuovo fronte apertamente ostile alle politiche di Ursula von der Leyen.
Resta da chiedersi a chi giova tale contrapposizione? Cosa spinge paesi grandi prenditori sino a ieri di fondi europei ed ugualmente colpiti ora dalla pandemia ad ostacolare il processo di unificazione europea? Quali modelli alternativi di assetto istituzionale, di sviluppo sociale e di politiche economiche li stanno allontanando dall’Europa? E verso dove?
La risposta è univoca, quanto dura. Le “democrature” di Orban in Ungheria, di Morawiecki in Polonia e di Matovic in Slovacchia sono rette da partiti conservatori, sovranisti e xenofobi e sono tre dei quattro membri del gruppo di Visegrad. Secondo la definizione del compianto Giovanni Sartori “La democrazia aliberale è già una democrazia totalitaria”. Essa mantiene in vita l’espressione democratica del voto ma una volta ottenuto il potere taglia fuori il popolo da ogni controllo sul proprio operato e demolisce l’architrave costituito della tripartizione dei poteri.
Il problema allora è di altra natura. Perché quei popoli non si ribellano, perché nella stragrande maggioranza vogliono regredire all’etimologia del termine che li accomuna slaves (schiavi) e da cui in alcuni momenti molto importanti della propria storia si sono liberati? Possiamo avanzare una modesta risposta: essi hanno paura di tornare ad essere poveri e, si sa, tale prospettiva è insostenibile per quanti hanno sperimentato cosa fosse, dopo secoli, una condizione di relativa agiatezza, mentre ancora ricordano la miseria precedente provata negli anni del comunismo, più o meno mitigato, che li ha visti crescere. Poco importa se anche in quei paesi le diseguaglianze sociali sono ormai diventate incolmabili.
Il disagio della Polonia come dell’Ungheria e degli altri Paesi cugini, ha una data precisa. E’il primo dicembre 2019, Ursula von der Leyen è eletta Presidente della Commissione Europea, con il sostegno determinante offerto a sorpresa dal Movimento Cinque Stelle, mossa troppo astuta per essere stata pensata dagli attuali dirigenti che si sono limitati ad eseguirla ricavandone indubbi e cospicui vantaggi. Essa tuttavia può essere letta oggi come il primo passo della normalizzazione del Movimento e della sua progressiva integrazione con il Partito Democratico oggi sotto gli occhi di tutti.
Tale evento ebbe inizialmente due effetti immediati: l’arresto dell’onda sovranista pronta ad impadronirsi dell’Unione per deviarne il corso in direzione anti euro ed il consolidamento della l’influenza di Angela Merkel, che da qualche giorno ha lasciato la politica governativa.
Il differenziale di contenuti e valori con l’Unione Europea è ormai significativo. Le politiche ambientali in direzione del contenimento delle emissioni di CO2 contrastano con le loro ambizioni di sviluppo industriale energivoro ancora in corso, le scelte in materia di immigrazione contrastano con lo sciovinismo tradizionale degli elettori, le aperture al mondo islamico cozzano con l’atavico odio maturato nell’essere stati per secoli frontiera spesso solitaria rispetto all’espansione ottomana; il laicismo europeo è percepito come blasfemo rispetto a quelle che essi ritengono le profonde radici cristiane e su temi quali aborto, omosessualità e ruolo delle donne nella Chiesa molti fedeli accedono ancora a livelli preconciliari e guardano con sospetto ogni apertura su temi liturgici e dottrinali.
Scandalizzati da Francesco e ancora ipnotizzati da Giovanni Paolo II, se fosse ancora di moda non esiterebbero a proclamare un proprio antipapa. Non ne hanno bisogno, avendo comunque nella Chiesa Ortodossa una sponda a cui eventualmente appoggiarsi, incontrandosi sul terreno comune della tradizione.
E gli intellettuali?
Secondo Jakub Majmurek, pubblicista e critico culturale vicino agli ambienti del collettivo Krytyka Polityczna, le radici sono lontane: “La maggior parte degli intellettuali polacchi post ‘89 ha sempre avuto posizioni, magari non necessariamente di sinistra, ma di certo non di destra. Ha sempre mantenuto le distanze dagli ambienti di cui PiS (Diritto e Giustizia, in polacco Prawo i Sprawiedliwość, PiS è un partito politico polacco di destra o estrema destra di ispirazione conservatrice clericale, nazionalista e illiberale ndr) è stata l’evoluzione e che già allora l’élite intellettuale guardava con distacco.
Da quando PiS ha preso il potere, non è riuscito a invertire questa tendenza. E nonostante abbia occupato istituzioni culturali di vario genere, questo non ha avuto come effetto la creazione di intellettuali capaci di parlare al di fuori della cerchia più stretta degli ultraconservatori che erano già il loro pubblico”.
La Polonia insomma vive la drammaticità del proprio destino che la poetessa Wisława Szymborska, Premio Nobel per la Letteratura nel 1996, ha voluto così profeticamente descrivere:
“Nulla è cambiato. | Il corpo trema, come tremava | prima e dopo la fondazione di Roma, | nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo, | le torture c’erano, e ci sono, solo la terra è più piccola | e qualunque cosa accada, è come dietro la porta.”
Potrà mai il cuore di Fryderyk Chopin che, separato dal corpo, riposa a Varsavia nella Chiesa della Santa Croce, comporre per questa nuova Polonia il suo ultimo Notturno?