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L’arte nell’immediato dopoguerra

di Valentina Becchetti 12 Agosto 2022
di Valentina Becchetti 12 Agosto 2022
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Sono a Senigallia, dove si è appena concluso il Summer Jamboree. Il Summer Jamboree è il più grande festival dedicato alla cultura e alla musica americana degli anni ’40 e ’50. Per una settimana donne in abiti da pin-up e uomini con cappellini di paglia e camicie hawaiane invadono e portano festa all’estate senigalliese. Nei giorni del festival tutta la città e il lungomare si immergono nella cultura post bellica, accompagnati dalle note dello swing, del rock and roll, jive, doo-wop, rhythm’n’blues e hillbilly. Leggende del rock che hanno ispirato la maggior parte degli artisti anni settanta, ottanta, novanta e anche odierni si sono susseguite sui palchi del centro della città, perché la musica, si sa, rinfranca lo spirito. Ma come hanno reagito gli artisti che sono emersi nel periodo immediatamente post bellico? Che effetti ha avuto la guerra sulla produzione artistica alla fine degli anni quaranta e cinquanta in America?

Era il 1945 e finalmente la guerra era finita, lasciando dolore, morte e distruzione dietro alle spalle e forse permettendo uno sguardo alla ricostruzione. Tuttavia, la Guerra Fredda, la battaglia tra l’Occidente capitalista e l’Oriente comunista, della quale subiamo ancora oggi gli effetti, incombeva. L’arte rispose agli eventi con moltissime correnti artistiche contemporaneamente. Emersero le profonde differenze tra la cultura americana fortemente democratica e quella europea, influenzata dall’arte figurativa e realistica dell’Unione Sovietica. E poi ci fu tutto il resto: Pop Art, che impiegava gli spetti della cultura di massa, Fluxus, che era una derivazione del Dada, il neorealismo in Francia, tutte le altre forme di realismo nel Regno Unito e infine il Realismo Socialista, nella Repubblica Socialista Sovietica, ecc.

Sembra che il periodo post bellico sia stato un periodo molto produttivo da cui ripartire e alcuni di questi artisti ingegnosi hanno creato una nuova storia dell’arte. Ma diamo uno sguardo più approfondito a quei dipinti che, in quest’epoca ambivalente e post traumatica, possano aver lasciato un segno profondo anche da un punto di vista attuale, in un momento di profonda crisi che noi non sempre riusciamo a capire fino in fondo.

Francis Bacon “Tre studi di figure alla base di una crocifissione” 1944 Tate Modern Londra

Bacon incominciò a lavorare sulla tematica della crocifissione nel 1933, quando il suo committente principale gliene commissionò una serie, composta da forme piatte, figure diafane e elementi surrealisti come l’ombrello o i fiori. Tornato sulla tematica della crocifissione undici anni dopo, mantiene i suoi elementi principali nel dipinto del ’33, quali ad esempio le forme allungate o le tecniche relative allo spazio come le linee che partono dalla figura centrale, già presenti nel dipinto del ’33. ma è dai dipinti dal ’44 in poi che Bacon si sente più soddisfatto, arrivando a rinnegare la sua arte prima di questa data e affermando che nessuna personale avrebbe avuto opere risalenti al periodo prima del ’44.

Il dipinto è caratterizzato da un uso spropositato di arancione in contrasto con i colori pallidi delle figure, creati dal miscuglio di grigi e bianchi, mentre per gli elementi di “arredo” sono stati scelte varie tonalità di giallo, verde, bianco e viola.

Il critico Hugh Davies suggerisce che la figura più “umana” sia quella del pannello di sinistra e che potrebbe rappresentare la morte sulla croce, con il suo collo estremamente allungato, le spalle profondamente arrotondate e una zazzera di capelli scuri. La bocca della figura centrale è posizionata direttamente sul collo e mostra i denti come in una smorfia, mentre i suoi occhi sono coperti da uno straccio. Questa creatura sta di fronte direttamente allo spettatore ed è centralizzata da una serie di linee che si irradiano dalla base del piedistallo. Posizionata su un pezzo di terra isolato, la figura a destra presenta una bocca allargata come in uno strillo straziante o forse in uno sbadiglio profondo. La sua bocca è aperta a un grado impossibile per un teschio umano. Lo sfondo arancione è più chiaro degli altri due pannelli e i denti della figura sono visibili solo nella parte superiore, con un orecchio che spunta a metà della bocca.

Studi attraverso gli infrarossi hanno rivelato che il dipinto fu rilavorato diverse volte. Bacon dichiarò che il dipinto era inteso essere una parte di un lavoro molto più grande e quindi doveva essere visto come una predella di una grande pala d’altare. La tinta scura si accosta meglio con l’idea della guerra stessa che con il periodo post bellico, sebbene la gran parte della sua produzione più significativa nel corso del XX secolo è rimasta in egual modo distruttiva e emotivamente inquietante. Il tema della crocifissione serve come simbolo di dolore e morte e Bacon usa l’allegoria per la creazione di Tre studi di figure alla base di una crocifissione. Attraverso un linguaggio privo di connotazioni religiose, l’artista vuole dipingere semplicemente la sofferenza umana. Tuttavia al tempo non fu considerato abbastanza “politico” e fu criticato aspramente dal critico John Berger, il quale non approvava la “mancanza di indignazione” di Bacon. D’altra parte Bacon stesso non dichiarandosi un realista, cercava, invece, di dare una maggiore enfasi alla violenza e alla distorsione nel suo lavoro come mezzo tra lo spettatore e il dipinto.

Jackson Pollock, Autumn Rhythm (Number 30), 1950, Metropolitan Museum of Modern Art, New York

Pollock è il maestro dell’arte astratta, il cui successo è l’aver realizzato le sue opere attraverso la nuova e apparentemente semplice tecnica del “drip painting”, cioè lo sgocciolamento del colore, spontaneo o lanciato sulle tele. Il modo in cui lui gestiva la pittura dava un risultato che era al confine tra un dipinto e una sorta di spettacolo, considerando che il dipinto stesso non aveva molto significato se non unito al processo per realizzarlo.

Autumn Rhythm fu realizzato nell’autunno del 1950 nello studio di Pollock a New York come parte di un gruppo di dipinti che lui presentò alla mostra alla Betty Parsons Gallery a novembre e dicembre del 1951.

La tecnica di pittura di questo dipinto, come di altri, consisteva nell’adagiare la tela sul pavimento, versando il colore dai barattoli o aiutandosi con delle bacchette, pennellate molto spesse e altri elementi che servivano come base per lo sgocciolamento sulla tela. Questa tela è una delle più grandi realizzate da Pollock. Hans Namuth documentò la realizzazione del dipinto attraverso una serie di fotografie: Pollock iniziò dipingendo un terzo della tela a destra con linee sottili di nero, aggiungendo in seguito marrone, bianco e una tonalità di blu, usando una grande varietà di tecniche di sgocciolamento, versamento di colore, fino alla conclusione del dipinto; poi si spostò al centro e a destra, usando la stessa tecnica.

Jean Dubuffet, La mucca dal naso sottile, 1954 Metropolitan Museum of Modern Art, New York

La Pop Art può aver avuto l’intenzione di sfidare certi aspetti dell’alta cultura artistica, ma non è mai stata nemmeno lontanamente vicino alla “bassezza” della Art Brut di Jean Dubuffet. La bellezza per Dubuffet non si riferiva alla bellezza standardizzata della cultura popolare e non era nemmeno parte dell’esclusività dell’espressione astratta. La maggior parte della sua produzione era tenere fuori il sistema e ignorare tutto ciò relativo agli standard culturali “ufficiali”, incluse le istituzioni. “La mucca dal naso sottile” è uno dei dipinti più significativi di Dubuffet, poiché rappresenta un comune animale domestico in maniera innocua e genuina, ignorante di qualsiasi tipo di paura al criticismo potenziale. La mucca con il piccolo naso e gli occhi da ragazzina ci fissa come noi fissiamo lei, incorporando tutta la libertà dell’Outsider Art.

Jasper Johns, Three Flags, 1958, Whitney Museum of American Art, New York City

Questo pezzo è probabilmente uno dei dipinti più famosi del XX secolo. Tre tele raffiguranti tre bandiere americane sono sovrapposte, dipinte con cera calda e ognuna è più piccola del 25% della precedente, creando un dipinto tridimensionale. Ogni tela è dipinta per assomigliare a una bandiera americana del tempo con le 48 stelle bianche nel riquadro blu (l’Alaska e le Hawaii furono introdotte negli Stati Uniti l’anno successivo) e 13 strisce bianche e rosse. In un senso, la prospettiva è al contrario, poiché le tele più piccole sono quelle più vicino allo spettatore. Solo la più piccola è completamente visibile poiché la altre sono parzialmente nascoste proprio da questa.

Il dolore, la rinascita, la lotta al comunismo, la lotta alle istituzioni, la ricostruzione, la destrutturazione, le idee nuove, le idee antiche ma riviste. La guerra che porta ai cambiamenti e il popolo rinasce e cresce e si rinnova e vive anche attraverso l’arte.

 

Valentina Becchetti

Valentina Becchetti nasce a Roma nel 1977. Dopo aver visto la tomba di Ilaria Del Carretto di Jacopo della Quercia nel 1985, la storia dell’arte diventa la sua passione. Si laurea alla John Cabot University in Art History e successivamente prende un Master presso il Sotheby’s Institute of Art London in mercato dell’arte. Lavora al dipartimento mobili di Sotheby’s Londra, poi si ritrasferisce a Roma e lavora nell’ufficio mostre della Soprintendenza del Polo museale a Roma, con il professor Giorgio Leone. Successivamente è direttore scientifico presso una delle più importanti Gallerie d’arte di Roma e d’Europa.

ArteValentina Becchetti

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