A parlare della devastazione della Striscia di Gaza non è più solo l’UNRWA. Recentemente anche il servizio satellitare delle Nazioni Unite, UNOSAT ha pubblicato un rapporto nel quale è inserita una mappa degli edifici del territorio palestinese occupato colpiti dai bombardamenti israeliani.
Immagini impressionanti: oltre 46.223 le strutture distrutte. A queste si aggiungono quelle degli edifici danneggiati: 18.478 in modo grave e 55.954 moderatamente danneggiati. Sono 35.754 le strutture potenzialmente danneggiate per un totale di 156.409 edifici colpiti dall’esercito israeliano. Praticamente il 63 per cento delle strutture presenti nella Striscia di Gaza, in particolare tra le città di Gaza, Khan Yunis e Rafah.
Una situazione che dimostra una volta di più, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’azione israeliana non ha niente a che vedere con l’attentato del 7 ottobre 2023 né con la ricerca dei presunti terroristi di Hamas. Quella eseguita dalle forze armate israeliane è un’azione di devastazione sistematica del territorio. E gli obiettivi non sono i terroristi o presunti tali, ma la popolazione.
Ad aprile scorso il relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto a un alloggio adeguato, Balakrishnan Rajagopal, riferendosi a Gaza, aveva usato il termine “domicidio” per descrivere la “distruzione deliberata” delle case dei palestinesi quali luoghi essenziali per vivere. A distanza di tre mesi UNOSAT calcola che sono almeno 215.137 le unità abitative distrutte o danneggiate dall’inizio dei bombardamenti.
Quanto alle promesse di trovare una tregua anche solo temporanea, ormai non ci crede più nessuno: manca la volontà di portare avanti qualsiasi trattativa. O, almeno, di sospendere gli attacchi mentre si cerca di organizzare un incontro che possa avere esiti diversi dai precedenti. I governatorati di Gaza Nord e Rafah hanno confermato che nell’ultimo periodo c’è stata un’impennata degli edifici danneggiati o distrutti rispetto all’analisi del 3 maggio 2024: circa 2.300 nuove strutture danneggiate a Gaza Nord e circa 15.030 a Rafah.
La totale indifferenza di fronte alle decisioni e alle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia e alla Corte Penale Internazionale confermano che da parte israeliana non c’è nessuna voglia di fermare i combattimenti.
Giorno dopo giorno si fa sempre più chiara la posizione di alcuni governi. Nei giorni scorsi la Turchia si è ufficialmente unita alla denuncia per genocidio presso la Corte dell’Aia presentata dal Sudafrica nei confronti dello Stato di Israele. A dichiararlo è stato il ministro degli Esteri di Ankara Hakan Fidan. Secondo il governo turco non è più tollerabile il clima di generale di “impunità per i suoi crimini, Israele uccide ogni giorno sempre più palestinesi innocenti”, ha dichiarato lo stesso Fidan, invitando la “comunità internazionale” a seguire l’esempio del Sudafrica e della Spagna e a “fare la sua parte per fermare il genocidio”.
La Turchia si aggiunge così alla lista dei Paesi che si sono mossi legalmente contro Israele per porre maggiore pressione su Tel Aviv affinché interrompa il massacro in corso a Gaza. Una decisione che era stata preceduta da diverse accuse informali da parte del governo turco nei confronti di Israele. Accuse di genocidio mosse da Erdogan alle quali Netanyahu aveva risposto invitando il presidente turco a “pensare al suo, di genocidio”, con un chiaro riferimento a ciò che il governo turco starebbe facendo nei confronti della minoranza curda.
La richiesta di avvio di una procedura di infrazione nei confronti di Israele è stata presentata dal Sudafrica alla CIG lo scorso 29 dicembre. Da allora, numerosi paesi hanno aderito alle accuse mosse dal Sudafrica. Oltre alla Turchia, hanno presentato formalmente una richiesta di adesione Spagna, Nicaragua, Colombia, Messico e Libia. Altri (Belgio, Maldive, Egitto, Cile, Irlanda e Cuba) hanno manifestato l’intenzione di aderirvi. A questi si aggiungono un migliaio di organizzazioni in tutto il mondo che hanno espresso la propria solidarietà alla causa.
Ma tutto questo finora non è bastato a fermare i bombardamenti. E nemmeno a non far accogliere con tutti gli onori il premier Netanyahu dal Congresso USA (e da entrambi i candidati alle prossime elezioni).