Molto più drammaticamente che nel resto del Paese, Palermo vive la più profonda crisi della propria storia civile. Deprivata di ogni risorsa economica, di ogni speranza in un nuovo rilancio nel quadro dell’Autonomia Siciliana e tagliata fuori dalle grandi scelte infrastrutturali, appare incapace di evolvere verso una dimensione metropolitana ed è isolata nel contesto nazionale ed europeo.
Quella che fu una città simbolo del massimo bene e del massimo male, langue oggi alla ricerca di soluzioni che configurino un’identità nuova fuori dai luoghi comuni e dagli stereotipi di ieri e di oggi.
Nel prologo dello Statuto, Palermo si definisce “antica capitale del Mediterraneo” e “Città di città” ma oggi è solo un’entità satellite e periferica dell’impero farlocco di Nello Musumeci di cui ho scritto, sottoposta ai suoi capricci ed alle molteplici ambizioni del cerchio magico che lo circonda, come già in passato accadde per Rosario Crocetta che, se non altro, fu almeno un presidente dotato di autoironia e di senso dell’umorismo.
La crescente disoccupazione giovanile, l’emigrazione dei giovani più promettenti, il fallimento dei servizi pubblici essenziali, il degrado delle periferie e ora anche del Centro Storico e dei quartieri residenziali, costellati di cartelli che ne mettono in vendita a prezzi stracciati molti appartamenti prestigiosi, la Città si presenta priva di qualsiasi visione del proprio futuro.
In presenza di un modello di sviluppo in parte coerente con la propria vocazione storico culturale ma dal respiro corto e che finora si è negato all’innovazione, fioriscono progetti ambiziosi, intriganti anche, ma scollegati da una visione complessiva che punti a rivitalizzare le poche risorse ancora rimaste. L’ipertrofia della burocrazia locale, unitamente al buon livello delle pensioni pubbliche e all’indubbio contributo dell’economia sommersa, se non criminale, ne sostengono ancora i consumi e permettono che le residue prestigiose vetrine di via Libertà siano ancora aperte insieme a gioiellerie ed a concessionarie di marchi automobilistici da sogno.
I numerosi pub, retaggio di una strategia di breve respiro volta a trasformare il Centro Storico nel motore dello sviluppo economico della Città, finite le restrizioni dovute alla pandemia, torneranno ad essere affollati di giovani e meno giovani che vi spendono ( sempre meno) striminzite remunerazioni da precari, sottratte ad ogni risparmio per l’incerto futuro o a possibili micro investimenti di auto-imprenditorialità a cui fantasmagoriche iniziative regionali non hanno dato altro che deludenti risposte.
I palazzi della politica degradano anche fisicamente con arredi mai restaurati, sale spente, atri trasformati in posteggi dei (tanti) dipendenti. Su tutto grava una cappa grigia di pessimismo e di attesa che neanche le straordinarie belle giornate della tarda primavera riescono ad attenuare. Giovani sempre più scettici continuano a frequentare l’Università, consapevoli che stanno investendo in formazione senza lavoro, migliaia di disoccupati affollano le aule della Formazione professionale attratti più dalla diaria che dall’intento di acquisire professioni da cui trarre un futuro reddito e confortati dal sentimento di solidarietà verso i propri “docenti” che pure devono campare la famiglia.
Gli altri giovani se ne sono già andati da un pezzo e, tra nostalgia di casa e sollievo per essere altrove, sanno bene che fuori da Palermo, comunque vadano le cose, il mondo gira ancora ed è, in ogni caso, più a portata di mano. Attardati nei giochi di potere, i partiti aspettano “come si conviene” l’ultimo minuto per presentare candidati impresentabili su cui non si avrà mai il tempo di ragionare, di accertarne le competenze, di verificarne la potenziale capacità di governo. Sull’altro versante, movimenti ed associazioni di indignati disorientati brancolano nel buio progettuale affidandosi ora ad un giovane tribuno, ora ad un’icona del passato, ora ad un’attesa messianica che resterà delusa.
I competenti, gli onesti, le brillanti intelligenze che pur ci sono e coloro che hanno idee e progetti grandi ma concreti si tengono ben lontani dall’arena di terz’ordine in cui dovrebbero scendere per confrontarsi con una città che vorrebbe solo tornare ad essere assistita e garantita dalla materna Regione Siciliana come “ai bei tempi”. Essi temono, non a torto, di fare la fine di consiglieri comunali illustri e riveriti quanto isolati, quali Leonardo Sciascia e Renato Guttuso e, in tempi più recenti, Letizia Battaglia e Antonino Caponnetto.
Dunque, una città morente che non riesce a scuotere se stessa da se stessa, incapace di sollecitare le migliori menti che eventualmente fossero rimaste, ad esporsi, oltre ogni appartenenza, per realizzare anche a Palermo quel governo di impegno comune, giustamente tanto apprezzato in questo momento dal Quirinale e dall’Unione Europea. Eppure, è la Città in cui a breve non sarà difficile tornare ad incontrare per strada il Presidente della Repubblica che gli italiani hanno apprezzato ed amato nel periodo più difficile dal dopoguerra e che, nel vuoto della politica, ha saputo imprimere la svolta decisiva per superarlo.
A ciò si aggiunga la considerazione che, pro quota, anche a Palermo arriveranno i fondi ed i progetti presentati nell’ambito del Next Generation Eu. Pochi o molti che dovessero essere, a chi si intende consegnarli perché vengano gestiti i primi e realizzati i secondi?
A tardi epigoni di ideologie che il mondo ha cancellato? A fanatici dell’immobilismo travestito da ambientalismo contemplativo?
A praticoni ben introdotti negli uffici pubblici, pronti a dare l’assalto alla diligenza, favorendo i propri elettori?
A proconsoli di lontane segreterie romane o lombarde?
Ad alleanze innaturali concordate in queste ore tra soggetti lontani tra loro in modo siderale per storia, valori e linguaggi, messe su nella logica del “contro” e non del “per” di cui conosciamo per antica esperienza il breve destino e in cui ciascuno si crederà la mosca cocchiera?
O, ancora, ad una torma di disoccupati e precari in cerca di un sussidio travestito da gettone di presenza frammentando come sappiamo il voto di centinaia di famiglie che non se la sentiranno di negare il proprio tratto di matita copiativa al cugino o al nipote, cercando così di dare risposta all’atavica domanda “A cu avemo o’ Comune?”?
Un disastro, ove si pensi che a tutt’oggi il Consiglio non ha ancora approvato il Piano triennale delle opere pubbliche e che il nuovo Piano Regolatore non ha alcuna speranza di essere anche solo discusso dall’attuale, consiliatura. Veri e propri pilastri del futuro di ogni città, che molto probabilmente saranno presto consegnati ad un Commissario nominato dal governo regionale che li approverà, come previsto dall’Ordinamento, senza alcun confronto democratico con la cittadinanza e come mero atto d’ufficio.
Certo a Palermo, non abbiamo alcun Draghi (ma ne siamo poi così sicuri?) nè a Palazzo d’Orleans alcun Mattarella in grado di investire con la dovuta autorità morale chicchessia (e di questo siamo sicurissimi!) eppure io sono convinto che un appello ai migliori figli e figlie di questa Città, ovunque dispersi, non cadrebbe nel vuoto.
Bocconiano o meno, esiste un ceto di professionisti, intellettuali, manager pubblici e privati, imprenditori sani, magistrati e docenti universitari, raffinati musicisti che, mai disposti a scommettersi da soli, prenderebbero in considerazione l’idea di farlo insieme, superando schieramenti che non esistono più, se non nella mente di chi ha convenienza ad evocarne i fantasmi.
Che escano allora allo scoperto, si riconoscano come squadra vincente ed individuino, oltre ogni appartenenza e all’insegna di un alto ed autentico civismo di scopo, il più capace tra essi per candidarlo a sindaco della quinta città d’Italia, magari puntando per la prima volta dall’elezione diretta su una donna che tanto potrebbe trarre il meglio dalla vicenda umana, professionale e amministrativa di Elda Pucci, maturata in tempi ormai remoti ma troppo facilmente dimenticata anche dalla toponomastica cittadina.
Saranno sorpresi della quantità e della qualità che è sommersa o nascosta dietro cattedre prestigiose, responsabilità imprenditoriali, risultati concreti più noti all’estero che in casa. Che si incontrino, si contino e si propongano alla Città esausta, parlando il linguaggio della speranza competente e della definitiva liberazione da fantasmi del passato, amati forse e a lungo desiderati, ma non più in grado di interpretare questa nostra terra martoriata.
Allora l’aquila, che il Marchese di Villabianca nei propri diari sospettava essere piuttosto una fenice, tornerà a volare come il falco di Federico, molto più in alto del ridicolo pennuto rosa nero a cui sembra finora rimangano unicamente affidate le incerte speranze di chi non osa più sognare.