Il 26 gennaio 2024, la Corte di Giustizia Internazionale ha pubblicato la prima “prescrizione” (“ordinance”) in merito alla citazione di Israele da parte del Sud Africa. La decisione della IJC è giunta in tempi brevissimi, ma non all’unanimità.
Quasi tutte le decisioni sono state prese con una maggioranza schiacciante di 15 voti a favore e due contro. La Corte di Giustizia Internazionale ha deciso (15 voti a favore e 2 contro) che lo “Stato di Israele, in conformità con i suoi obblighi ai sensi della Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, in relazione ai palestinesi di Gaza” deve “adottare tutte le misure in suo potere per impedire la commissione di tutti gli atti nell’ambito dell’articolo II di questa Convenzione”. Che deve impedire che vengano “inflitte deliberatamente al gruppo (dei palestinesi) condizioni di vita intese a danneggiare il benessere fisico”, che vengano messe in atto misure per la riduzione delle nascite all’interno del gruppo (chiaro il riferimento alle decine di migliaia di minori morti sotto i bombardamenti). Sempre con 15 voti a favore su 17, la Corte di Giustizia Internazionale ha previsto che lo “Stato di Israele garantirà con effetto immediato che i suoi militari non commettano gli atti descritti al precedente punto”. “Effetto immediato” significa subito, non entro un mese come riportato da alcuni media. Ma non basta. “Lo Stato di Israele adotterà tutte le misure in suo potere per prevenire e punire l’incitamento pubblico e diretto a commettere un genocidio nei confronti dei membri del gruppo palestinese nella Striscia di Gaza”.
A pesare su questa decisione le prove fornite dagli avvocati sudafricani della Corte di Giustizia Internazionale che hanno dichiarato che alcuni soldati israeliani aveva celebrato il genocidio dei palestinesi e la distruzione a Gaza: “I soldati si filmano mentre fanno esplodere gioiosamente interi condomini e centri urbani, erigendo la bandiera israeliana sulle macerie, cercando di ristabilire gli insediamenti israeliani sulle macerie delle case palestinesi e, quindi, estinguendo le basi stesse della vita palestinese a Gaza”, ha detto Adila Hassim, avvocato che presenta il caso del genocidio di Gaza in Sudafrica presso la Corte di Giustizia Internazionale. Secondo la Corte, lo Stato di Israele dovrà “adottare misure immediate ed efficaci per consentire la fornitura dei servizi di base e dell’assistenza umanitaria urgentemente necessari per affrontare le condizioni di vita avverse affrontate dai palestinesi nella Striscia di Gaza”. Impedire l’arrivo degli aiuti umanitari, come è stato fatto finora, sarebbe una grave violazione di tale sentenza.
La sentenza non è stata sottoscritta all’unanimità. Tra i membri della Corte una è uscita dal coro: la giudice Sebutinde. È stata la sola ad aver votato contro tutte le decisioni (anche quelle per le quali c’era il parere positivo della parte accusata). Perchè questa posizione così estremista? E chi è Julia Sebutinde?
Julia Sebutinde è una giudice ugandese famosa nel suo Paese: secondo alcuni sarebbe la prima donna africana a sedere su un campo internazionale. Quello attuale è il secondo mandato presso la Corte Internazionale di Giustizia. Dopo aver frequentato la Lake Victoria Primary School di Entebbe e la Gayaza High School, in Uganda, si è laureata presso l’Università di Makerere. A 36 anni, si è trasferita in Scozia dove ha conseguito un master in legge presso l’Università di Edimburgo. Nel 2009, la stessa università le ha conferito un dottorato in giurisprudenza, riconoscendo il suo contributo al servizio legale e giudiziario. Prima di essere eletta (prima donna africana) alla Corte Internazionale di Giustizia, Sebutinde è stata giudice presso il Tribunale Speciale per la Sierra Leone. Nel febbraio 2011, Sebutinde fece parte del panel di tre giudici incaricati di presiedere il processo all’ex presidente liberiano Taylor per crimini di guerra commessi in Sierra Leone. Il nome della Sebutinde finì sui giornali: il Tribunale Speciale dichiarò Taylor colpevole di ben 11 capi d’accusa, tra cui crimini di guerra, crimini contro l’umanità, terrorismo, omicidio, stupro e uso di bambini-soldato e lo condannò a 50 anni di carcere. La vicenda finì sui giornali perché l’avvocato che rappresentava Taylor abbandonò il procedimento perché i giudici avevano rifiutato di ascoltare la lettura di un testo scritto dal suo cliente alla fine del processo. Alcuni definirono questo gesto una “censura”. Ma la procedura venne aggiornata a tempo indeterminato perché la Sebutinde si rifiutò di partecipare per principio.
Ora la Sebutinde è tornata a far parlare di sé. E ancora una volta per una questione di principio: la Sebutinde ha giustificato la propria opposizione a tutti i quesiti ai quali la Corte di Giustizia Internazionale era chiamata a rispondere dicendo che secondo la sua “rispettosa opinione dissenziente, la disputa tra lo Stato di Israele e il popolo palestinese è essenzialmente e storicamente politica” e “non una controversia legale suscettibile di risoluzione giudiziaria da parte della Corte”. In altre parole, secondo la giudice, il Sudafrica non avrebbe dimostrato che gli atti commessi da Israele sono stati “commessi con il necessario intento genocida, e che, di conseguenza, sono in grado di rientrare nell’ambito della Convenzione sul genocidio”. A nulla sono valse le prove dei bombardamenti mediante quelli che i legali sudafricani hanno detto essere stati realizzati con alcune tra le bombe più distruttive possibili.
Un comportamento che ha levato un coro di dissensi. Oltre alla stragrande maggioranza dei suoi colleghi membri della Corte di Giustizia Internazionale, anche diversi esperti esterni come Mark Kersten, assistente professore presso l’Università della Fraser Valley che si occupa di diritto dei diritti umani, hanno detto di pensarla diversamente: “penso che l’errore (della Sebutinde) derivi dal fatto che il genocidio non è una disputa politica, è una questione legale”. Specie considerando che “sia il Sudafrica che Israele hanno firmato la Convenzione sul genocidio nel 1948 e accettano la giurisdizione sulle violazioni della Convenzione sul genocidio e sulla mancata prevenzione del genocidio”, ha detto in una recente intervista. Persino l’ambasciatore dell’Uganda presso le Nazioni Unite ha dichiarato che il suo Paese non si riconosce nel comportamento della Sebutinde. “La sentenza del giudice Sebutinde presso la Corte Internazionale di Giustizia non rappresenta la posizione del governo dell’Uganda sulla situazione in Palestina”, ha detto in una dichiarazione su Twitter.
In quanto membri delle Nazioni Unite, sia il Sud Africa che Israele sarebbero tenuti a rispettare le sentenze della Corte di Giustizia Internazionale. D’altro canto, però, la stessa Corte di Giustizia Internazionale non dispone di alcun meccanismo per imporre agli Stati il rispetto delle sentenze che emette. E se da un lato è vero che il Sud Africa (o altre nazioni) potrebbe chiedere al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) di imporre a Israele di rispettare le misure di emergenza ordinate dalla Corte Internazionale di Giustizia, dall’altro è altrettanto vero che (come è avvenuto per ben due volte a causa del veto imposto dagli USA) ciò potrebbe non avere effetti.
Secondo alcuni, però, un nuovo veto di Washington su una decisione approvata dalla Corte Internazionale di Giustizia porrebbe il presidente Biden in corsa per il rinnovo del mandato in una posizione scomoda quando afferma di voler sostenere l’ordine internazionale basato sulle regole.