Questo articolo viene scritto mentre brucia il Monte Cofano, una delle più belle mete turistiche della Sicilia, un asset importantissimo del patrimonio ambientale dell’Isola, una riserva orientata che andava custodita e protetta a qualsiasi costo. Le fiamme hanno avvolto la montagna che si affaccia sul golfo di Cornino, tra Custonaci e San Vito Lo Capo allargandosi fino al versante nord-est sulla baia di Castelluzzo e Macari. L’incendio, divampato poco prima delle 21 di giovedì sera dalla zona della tonnara di Cornino, si è propagato rapidamente.
Mentre si rinnova il dramma degli incendi estivi in Sicilia e se ne conferma l’origine dolosa, si cercano gli esecutori materiali ma poco si approfondisce circa la mancanza di interventi di prevenzione e custodia permanente delle zone a maggior rischio, conseguenza di un’ignavia che attraversa la valorizzazione e la tutela di ogni altra risorsa sotto la responsabilità di chi ha governato la Regione Siciliana sotto tutte le bandiere. E’ l’ennesimo episodio di una situazione diventata ormai insostenibile e, forse, senza via d’uscita.
Non vi è rapporto o classifica che vedano la Sicilia in posizioni diverse dalle ultime in ogni settore economico, in ogni ambito sociale, in ogni aspetto della qualità della vita.
A poco vale l’ossessivo ritornello della ripresa turistica che, come molti sanno, non è stata l’esito di politiche di attrazione né frutto di investimenti specifici quanto piuttosto, in larga misura, la conseguenza dell’inevitabile flessione delle presenze straniere in Tunisia e in altre aree del Mediterraneo caratterizzate da forte instabilità e dal rischio di attentati terroristici.
La Sicilia dunque è ultima, oltre che nei numeri che contano, anche nell’immaginario collettivo considerati il livello di povertà, il tasso di disoccupazione, di emigrazione giovanile, intellettuale e non. Su di essa pesa ancora l’ombra di collusioni o di contiguità tra la politica e la criminalità organizzata nelle sue innumerevoli mutazioni. Esattamente come venti o trenta anni fa, seppur con tonalità e sfumature diverse, la Sicilia fa notizia – sovente spettacolo – per il degrado del territorio, l’insipienza della classe politica, la labirintica amministrazione, la subalternità dell’imprenditoria, l’impoverimento del ceto intellettuale, l’assenza di grandi iniziative che oltrepassino la durata programmata e consentano di apprezzarne risultati duraturi nel tempo.
Una regione di cinque milioni di abitanti non può reggersi sulla bellezza superstite dell’ambiente, che peraltro trascura, né sulla retorica del patrimonio storico e artistico specie se entrambi sono ampiamente condizionati dalla mancanza di risorse per curarne la salvaguardia, la manutenzione e uno sviluppo moderno che oltrepassi abusate categorie di intervento e un innegabile obsoleto approccio conservativo.
La Sicilia che ancora una volta, nonostante la posizione geopolitica e la tradizione di terra d’incontro, non è riuscita a trovare la propria strada per entrare nella modernità e sembra consolarsi con i ritagli di un passato spesso sopravvalutato e in qualche caso storicamente distorto.
Ecco allora il patetico trionfo del cibo di strada, dei fasti del passato, dei richiami ad una Sicilia Felicissima che non è mai esistita in quanto invece terra povera, eternamente subalterna, più furba che intelligente, ossessionata dal potere e da un cupo sentimento di dissolvimento, mascherato da una finzione di “prorompente” vitalità.
Può essere utile ricordare come Gesualdo Bufalino, attento conoscitore dell’animo siciliano e schivo intellettuale di provincia tardivamente riconosciuto a livello internazionale (Campiello 1981 e Premio Strega nel 1988) descrivesse l’animo dei propri conterranei nell’ Identikit del Siciliano Eccellente: « Il Siciliano… tende a surrogare il fare col dire; gode del pessimismo della volontà; ama il razionalismo sofistico; vive il sofisma come passione; è animato da spirito di complicità contro il potere, lo Stato, l’autorità, – intesi come “stranieri”; vive orgoglio e pudore in un inestricabile nodo; ha una sensibilità patologica al giudizio del prossimo; ha un forte sentimento dell’onore offeso (ma spesso solo quando il disonore sia lampante e non prima); percepisce la malattia come colpa e vergogna; ha un forte sentimento del teatro e dello, spirito mistificatorio; predilige la comunicazione avara e cifrata (fino all’omertà) o in alternativa l’estremismo orale e l’iperbole dei gesti; è accecato da un sentimento impazzito delle proprie ragioni, della giustizia offesa; esibisce vanagloria virile e alterna festa e tristezza negli usi del sesso; ha soggezione del clan familiare, specialmente della madre padrona; esprime un sentimento proprietario della terra e della casa come artificiale prolungamento di sé e sussidiaria immortalità; è attanagliato da un sentimento pungente della vita e della morte, del sole e della tenebra che vi si annoda». (Cere perse, Sellerio, Palermo, 1985) Bufalino avrebbe rivisto oggi le proprie opinioni sui siciliani? L’automobile che lo falciò in un incrocio alla periferia di Vittoria nel 1996 ha impedito di saperlo.
Tuttavia, chi scrive lo ritiene improbabile, tenuto conto che molte delle caratteristiche descritte sono ancora oggi rintracciabili in parecchi giovani siciliani che non hanno ancora lasciato la terra in cui sono nati. Per le decine di migliaia che sono andati altrove, spesso con titoli e qualifiche di altissimo livello, c’è da augurarsi che la profezia che Giuseppe Tomasi di Lampedusa pone sulle labbra del Principe di Salina sia ancora valida: «Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dall’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire molto, molto giovani; a vent’anni è già tardi: la crosta è fatta: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori.»
Evocati due tra gli inascoltati cantori della sicilianità, spesso fraintesi e interpolati, non vi è dubbio che sul versante della politica le caratteristiche descritte da Bufalino siano ampiamente rinvenibili, visibilmente incarnate e vadano tenute presenti oggi e in futuro.
Nel tempo si sono delineate al riguardo alcune principali “scuole di pensiero”: da un lato si cercava il consueto Uomo della Provvidenza, un candidato cioè che incarnasse le doti del superuomo, che fosse conosciuto e riconosciuto anche fuori dall’Isola, che sapesse incantare le folle descrivendo leopardiane “magnifiche sorti e progressive”. Non sembra di averne visto alcuno all’orizzonte, se non rivolgendo all’indietro di quasi venti anni un immaginario cannocchiale che cerchi le occasioni perdute. In ogni caso, del limite e dei rischi di una tale ipotesi siamo oggi ben consapevoli.
Dall’altro lato, ha soffiato il vento della cosiddetta antipolitica. Si è dimenticato però che, come qualcuno ha notato, la vera antipolitica si astiene e non va alle urne come ampiamente dimostrato da decine di consultazioni locali e nazionali in anni recenti. Ciò che resta è un movimentismo acefalo e confuso che avrebbe potuto coincidere con una componente generazionale di indubbio interesse, se paragonata all’età media delle classi politiche che si sono sovente manifestate negli schieramenti tradizionali. Pur con molta cautela, il sociologo della politica avrebbe potuto rintracciarvi il seme di una classe dirigente allo stato nascente che aspirasse nel tempo a costituirsi come tale ed a presentarsi agli elettori con quella concretezza e credibilità che invece sembra ormai perduta.
Non desiderando annoiare il lettore, c’è stata infine la scuola di pensiero che vedeva nell’utilità di un quadro regionale organico a quello nazionale una garanzia per la Sicilia di beneficiare di maggiore attenzione e di essere destinataria di investimenti e scelte strategiche conseguenti. Ma qui fa difetto la memoria remota poiché qualcosa dovrebbe essere stata imparata dai casi in cui ciò si verificò, ma anche la memoria più recente, tenuto conto della posizione di siciliani ai massimi vertici dello Stato e l’algida distanza da molti di essi tenuta nei confronti della propria regione, ad eccezione, beninteso, dell’immancabile presenza nell’ affollato palcoscenico su cui si recitano abusati copioni che trattano di mafia, antimafie et similia.
Come più volte rilevato su queste pagine “Quando la storia siamo noi. Cronaca dell’Apocalisse siciliana” e successivamente analizzato nel corso dell’intervista all’architetto Guido Meli che negli uffici della Regione Siciliana ha trascorso l’intera vita professionale, non appare ancora avere dignità adeguata la consapevolezza di quanto il vero handicap della Sicilia stia nell’assenza di una classe dirigente che, anche se formatasi all’ombra di un leader, ne abbia raccolto gli insegnamenti e non solo gestito i voti e si sia costituita come superamento di se stessa e del leader medesimo, rinnovandosi, favorendo la crescita di giovani di qualità, spianando loro la strada piuttosto che decidendo di farne eterni quanto improbabili delfini condannati ad invecchiare in seconda o in terza fila, con un destino simile a quello di Carlo d’Inghilterra.
Se vi fosse in Sicilia una sorta di Banca d’Italia, si potrebbe fare ricorso al vivaio di dirigenti formatisi sotto la guida di maestri come Carlo Azeglio Ciampi; se in anni recenti si fosse investito in scuole di alta formazione, una ricerca fruttuosa potrebbe essere esperita tra gli allievi più brillanti di Gabriele Morello o di Salvatore Teresi. Tali cervelli, oggi, ultrasessantenni, hanno arricchito con le proprie capacità altri luoghi del mondo capaci di valorizzarne le doti e le competenze.
Purtroppo l’assenza del tempo futuro nella lingua, perché tale essa è, correntemente parlata dai siciliani ha fatto si che il concetto venisse sottratto ai siciliani di ieri e oggi. Ed è di ciò che la Sicilia paga il prezzo più alto, non avendo voluto guardare oltre il contingente interesse di quanti l’anno governata con provincialismo e brama di immortalità politica, frustrando e rendendo vani i tentativi coraggiosi di chi è rimasto per impegnarsi, pur consapevole di mettere a rischio il proprio destino personale.
L’ultima possibilità per evitare gli errori del passato è stata evocata dalle parole profetiche che Leonardo Sciascia scriveva già nel 1964 ad Italo Calvino: «Della Sicilia si sa ormai tutto, assolutamente tutto. Però questa compiutezza e chiarezza non vengono anche dal fatto che la Sicilia è, nella sua realtà, deserto? (…) Ormai c’ è più Sicilia a Parigi che a Racalmuto, nella Milano nebbiosa, nella Torino razzista che nella Palermo mafiosa. Bisogna avere il coraggio di seguire questa Sicilia che sale verso il Nord, per trovare ragione più valida (almeno per oggi) di scrivere.»
Sono trascorsi sessant’anni e ormai una Sicilia migliore sta crescendo altrove e inevitabilmente si sta contaminando con il futuro che avanza nel mondo, piuttosto che crogiolarsi nell’alibi di una nostalgia delle pur uniche ed originalissime contaminazioni del passato da cui discende.
Secondo il Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione 2019 della Fondazione Leone Moressa, in dieci anni il nostro Paese ha perso poco meno di 500mila residenti, di cui quasi 250mila giovani under 35, in larga parte meridionali e siciliani: un esodo che ci sarebbe costato circa 16 miliardi di euro, oltre l’1% del Pil, per capirci.
Secondo gli ultimi dati del rapporto Migrantes, la popolazione siciliana residente all’estero si aggira intorno ai 4.999.891 milioni. Gli iscritti all’Aire sarebbero 768.192, incidendo nel 15,4 per cento sulla popolazione complessiva di iscritti. La media dei siciliani all’estero oscilla tra i 18 e i 34 anni con un 22,8 per cento. A questi seguono i 35enni che vanno fino ai 49enni. Nel caso dei siciliani, l’estero si chiama Europa. I giovani emigrati preferiscono, infatti, rimanere nel continente che hanno imparato a conoscere e ad amare, si tratta della generazione Erasmus.
Perché la Sicilia vede andar via i propri figli? Cosa andrebbe implementato nella nostra Regione per evitare che i ragazzi della nostra emigrino? Il periodico LiveUnict, organo dell’Università di Catania, lo ha chiesto ad alcuni siciliani all’estero, oggi lontani da casa ma sempre con un occhio di riguardo per le luci e le ombre della propria regione d’origine.
«Il potenziale umano ed economico della Sicilia rimane ancora oggi inesplorato e non sviluppato appieno – commenta Carmen, che dopo aver studiato e conseguito la laurea all’Università di Catania ha scelto di creare per sè una nuova vita tra l’Europa e l’Australia, dove adesso vive insieme alla famiglia –un numero sempre maggiore di Siciliani, emigra dal Sud verso il Nord Italia ed anche verso i Paesi UE ed extra-UE. Andrebbero implementati gli investimenti che riguardano il capitale umano della Regione ed in particolare le giovani risorse che danno ricchezza in termini culturali e professionali alla Sicilia. Così come si calcola il ROI (Return on Investment) di un’azienda, a sua volta andrebbe calcolato il ROI di una risorsa umana.»
«Ogni studente che frequenta un ateneo siciliano – continua Carmen – apporta un beneficio economico esponenziale alla fine del suo percorso formativo e per il resto della sua carriera professionale. Nel corso degli anni, questo approccio non è mai stato preso in considerazione dal governo regionale e di conseguenza chi ricerca uno sbocco professionale adeguato ed orientato al merito, viene costretto a lasciare l’isola. In Sicilia purtroppo manca una pianificazione economica di lungo termine come nelle Regioni più industrializzate – aggiunge Carmen – tuttavia, la Sicilia ha un forte orientamento umano e questo è dovuto alla cultura dell’accoglienza, della convivenza con il bello, vedi l’arte greca/romana, il barocco siciliano, l’arte della viticultura o della cucina. In altri Paesi, non si incontra una così grande mescolanza di culture, di dialetti e di umanità come si riscontrano in Sicilia. L’unicum della nostra isola sta proprio nel saper accogliere, nel mettere a proprio agio chi ci visita, nel non aver paura del diverso e nell’essere aperti mentalmente alla mescolanza culturale e linguistica.»
C’è speranza per la nostra Isola?
«Non credo che la Regione stia cambiando, o quanto meno non mi illudo che sia così – commenta Soriana, una siciliana lontana da casa che vive a Düsseldorf da quasi due anni dove è assistente in una galleria d‘arte contemporanea. – credo fermamente, però, che le nuove generazioni stiano lavorando con tenacia e fermezza affinché la Sicilia sia più malleabile e aperta a nuove realtà professionali. Ovviamente seguendo questa direzione il cambiamento non può che essere positivo. Ma il processo è ancora lungo – continua la ragazza – e talvolta arduo perché manca una proficua collaborazione tra gli enti politici e queste nuove giovani promesse. Mancando i fondi, quando ci sono percorrono strade oscure e le fonti a cui poter attingere per progredire, lo sviluppo e il potenziamento non sono così evidenti».
Per Gianmarco, siciliano che ha scelto di cercare fortuna nell’ambito della ristorazione a Londra: «La differenza più evidente è la mentalità delle persone, purtroppo i giovani sono costretti a lasciare la Sicilia e quindi la maggior parte della popolazione che rimane è formata da persone già adulte che difficilmente cambiano le loro idee.» Anche Gianmarco concorda amareggiato: «Ad essere sincero non noto un cambiamento della Sicilia, come dicevo prima fin quando i giovani non resteranno in Sicilia ed a sua volta l’Isola non si aprirà verso nuove popolazioni e culture differenti questo cambiamento mi sembra molto difficile. Nonostante tutti questi difetti la Sicilia è il posto più bello del mondo perché quella è, e resterà, sempre casa».
Chissà allora che non ci sia una via obbligatoria da percorrere, quasi una catarsi quella della diaspora dell’emigrazione (non solo intellettuale) per comprendere la sostanza dei fenomeni siciliani, ma anche per raccontare il ruolo che la Sicilia ha giocato, nel bene molto più che nel male, nell’ intera vicenda di crescita del nostro Paese. Sicilia internazionale, ricca di risorse, capace di produrre cultura e ricchezze, ma anche di rimanerne senza.
Sul filo tenue che lega “i siciliani di scoglio” quelli cioè che rimangono aggrappati alle rocce dell’ isola e chiusi nei suoi confini culturali e “i siciliani d’ alto mare”, che hanno rotto con non poca sofferenza l’incantesimo dell’ insularità e navigano oggi su mari più fertili e pescosi, si gioca l’ultima scommessa per abbandonare la logora zattera di un’autoreferenzialità impossibile e di tessere una nuova vela su cui soffi quel vento del cambiamento al quale finora, per suprema arroganza, abbiamo negato la prua.
Un collegamento virtuoso su cui la tradizione incontri l’innovazione ed entrambe accompagnino verso il futuro. Forse è anche questo il ponte di cui la Sicilia ha la massima ed urgente necessità.