Oggi è il 25 aprile. Sono passati 75 anni da quella data che a noi siciliani purtroppo non appartiene.
Non sono nostre le emozioni, il travaglio interiore, le lacerazioni drammatiche, le scelte dolorose, le vittime che rappresentarono per l’Italia il prezzo pagato per redimersi da venti anni di pavida acquiescenza nei confronti del Fascismo.
“Liberati” quasi due anni prima dalle truppe americane che erano sbarcate sulle nostre coste, ben protette dagli accordi tra la mafia siciliana e “cosa nostra” d’oltre oceano, i siciliani non vissero alcuna redenzione né ebbero modo di interrogarsi sulla propria passività.
Quando, come quasi ogni anno, mi recavo al cippo che al Giardino Inglese ricorda i martiri siciliani della Divisione Acqui a Cefalonia nel ‘43 e guardavo negli occhi i pochi reduci, mi coglieva una grande emozione poiché in realtà quei ragazzi erano stati gli unici della nostra terra che, posti davanti ad una scelta indifferibile, seppero da quale parte stare, anche a prezzo della propria vita.
Per il resto, la Sicilia transitò senza traumi, come è usa da millenni, alla nuova realtà delle cose. Un’intera classe dirigente fortemente compromessa con il regime trovò il modo di riciclarsi rapidamente nel Partito Monarchico e soprattutto nella Democrazia Cristiana.
Nessun lavacro purificatorio, nessuna pubblica autocritica, neanche un gesto minimo di resipiscenza si registrò in Sicilia in quegli anni e quando il 25 aprile del 1945 Milano, Bologna, Ferrara, Venezia, Napoli ed altre città italiane ebbero finalmente il meritato orgoglio di innalzare il tricolore, noi ci limitammo ad unirne il vessillo alla bandiera a stelle e strisce.
Molto di quando accadde allora rappresenta la radice e la causa di ciò che oggi la Sicilia ancora è. Una terra dall’identità politica indistinta nascosta per oltre mezzo secolo dietro l’ambiguo schermo dell’Indipendentismo prima e dell’Autonomi poi. Una regione di cinque milioni di abitanti, una “quasi nazione” separata non solo dallo Stretto di Messina dal resto di quell’Italia a cui non ha mai sentito, forse a ragione, di appartenere e con cui identificarsi.
Come già nel 1799, quando Palermo accolse con grande pompa i Borboni in fuga da Napoli, ritardando di mezzo secolo la consapevolezza dei valori della Rivoluzione Francese, dal 1943 al 1945 la Sicilia intera perse un’altra occasione per entrare nella modernità, esclusa come fu da quel travaglio interiore che altrove rinnovò in larga parte il resto del Paese. Poi venne l’Autonomia.
Un patto per frenare le spinte indipendentiste concedendo potestà e poteri ancora oggi mai esercitati in nome dell’ascarismo della maggior parte dei politici locali che barattarono ogni speranza, ogni valore, per un piatto di lenticchie.
E ciò riguardò anche i partiti della Sinistra che, nell’impossibilità di aspirare a governare direttamente, inaugurarono una stagione di consociativismo e di collusione che permettesse loro di esercitare comunque quel potere sotterraneo necessario a mantenerli in vita. A nulla valsero i rimproveri di Pio La Torre, il richiamo alla questione morale di Enrico Berlinguer, il sacrificio di Servitori dello Stato e dei pochi, isolati esponenti politici che si opposero a tutto ciò.
Antonio Gramsci, un grande sardo della diaspora come molti siciliani, cui dobbiamo l’elaborazione del concetto di egemonia e tanto, tanto altro, si spense nel 1937 dopo venti di carcere e non vide mai quella Liberazione di cui tanto aveva scritto in pagine memorabili e ancora mai abbastanza ricordate. Ma la sognò e la costruì nel pensiero e nell’azione di quanti lo riconobbero come maestro. Vent’ anni prima di morire poco più che quarantenne, aveva scritto:
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?
Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.
Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. Antonio Gramsci, La città futura, 11 febbraio 1917.
E proprio “Gli indifferenti” fu il titolo dell’opera con cui esordì nel 1929 il ventiduenne Alberto Moravia.
Non ci fu Liberazione nella Sicilia apatica e indifferente del 25 aprile 1945. Dinanzi a quel Cippo al Giardino Inglese sarebbero sfilati oggi ancora una volta sepolcri imbiancati che mai proveranno un sia pur breve sentimento di vergogna davanti a quel marmo segnato dal tempo. Al collo dei reduci di Cefalonia e dei pochi superstiti partigiani che vissero in un lontano altrove quelle giornate, il fazzoletto azzurro servirà solo ad asciugare, nel nuovo “confino” che in questi giorni drammaticamente li rinchiude, le lacrime di rimpianto per ciò che la Sicilia sarebbe potuta essere e che, ancora oggi, non è.
Possiamo solo augurarci che i giovani siciliani, provati come tutti dalle limitazioni della libertà che la pandemia impone e nonostante ciò, in molti casi in prima linea per generosi atti di solidarietà verso chi ha più bisogno, possano percepire la grande lezione del passato e quanto pericoloso sia non coglierne l’insegnamento, evitando di restare ai margini dei grandi eventi della storia e trovando il coraggio di diventare protagonisti, anche nella propria terra, nella ricostruzione del nuovo mondo che si sta preparando.