
[fonte foto Ansa: da avvenire.it]
Sin dall’inasprirsi dello scontro tra israeliani e palestinesi (nonostante le celebrazioni dei giorni scorsi, la verità è che questi due paesi sono in guerra da oltre settant’anni), in molti si sono domandati come mai solo pochi paesi arabi si sono schierati dalla parte dei palestinesi. E perchè Israele, dopo aver raso al suolo la Striscia di Gaza, ha deciso di rivolgere i propri attacchi al Libano e all’Iran. La scusa è sempre la stessa: combattere i terroristi. Ma questo non giustifica i bombardamenti a tappeto che stanno producendo danni incalcolabili e morti tra la popolazione civile.
Da non dimenticare che esiste una differenza non da poco tra questi tre fronti. Mentre per la Palestina Israele aveva la scusa di voler liberare i prigionieri (in realtà, ne sono morti diversi sotto le bombe), per il Libano e per l’Iran la situazione è molto diversa. Le motivazioni appaiono blande.
A questo si aggiunge che, mentre il Libano è relativamente povero, il suo territorio è dimensionalmente ridotto e in condizioni economiche disastrose (anche a causa dei rifugiati arrivati dalla Siria che ne hanno fatto il paese con il maggior numero di rifugiati in rapporto alla popolazione residente), per l’Iran la situazione è diversa. Le sue dimensioni sono molto maggiori. Conta oltre 80 milioni di abitanti. Ma soprattutto è molto più lontano da Israele: per raggiungerlo bisogna attraversare necessariamente la Siria e l’Iraq (o fare un giro lunghissimo dal mare e attraverso al Turchia o dall’Arabia Saudita e attraverso il Mar Rosso).

[fonte foto: corriere.it]
Questo rende gli attacchi verso l’Iran strategicamente quasi impossibili se non impossibili. Naturalmente lo stesso vale per gli attacchi dall’Iran a Israele: non è un caso se gli ultimi missili iraniani sono stati intercettati quasi tutti prima di raggiungere i propri obiettivi. Questo, unitamente al fatto che in nessun caso si è cercato di colpire obiettivi strategici (centrali elettriche e petrolifere, condotte idriche, aeroporti e strade e molti altri), confermerebbe che la decisione del governo israeliano di attaccare l’Iran è più politica che strategica. Lo stesso vale per la risposta iraniana. Non è un caso se, nei giorni scorsi, l’ambasciatore dell’Iran alle Nazioni Unite, Saied Iravani, ha inviato una lettera alla presidenza del Consiglio di Sicurezza ONU e al Segretario generale Antonio Guterres nella quale ha “giustificato” l’attacco contro Israele dicendo che “rientra nell’esercizio del diritto di Teheran all’autodifesa, sancito nell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite, e in risposta alle ricorrenti aggressioni militari israeliane e in particolare dopo il raid del 1 aprile”.
Ma allora perché Israele ce l’ha tanto con questo paese? E perché non nutre lo stesso rancore nei confronti di altri paesi arabi come l’Arabia Saudita o l’Egitto?.
C’è stato chi ha cercato di fornire una giustificazione, a nostro avviso un po’ semplicistica, rimandando alla disputa millenaria tra musulmani sciiti e musulmani sunniti. In Iran, la popolazione sciita è di gran lunga la maggioranza (oltre il 90%). Se si fa eccezione per l’Iraq (dove gli sciiti sono poco più della metà della popolazione) e per il Libano (dove sono poco meno della metà), gli altri paesi arabi che circondano Israele sono abitati per la maggior parte da sunniti. Secondo alcuni, questo sarebbe sufficiente a spiegare come mai paesi “forti” come l’Arabia Saudita, l’Egitto (direttamente coinvolto nel conflitto: si è precipitato a chiudere le frontiere per limitare l’accesso dei palestinesi), il Pakistan, la Turchia e molti altri non hanno preso le difese dei palestinesi, prima, e del Libano o dell’Iran, più di recente.
In realtà, la distribuzione di sciiti e sunniti non è così limitata dai confini territoriali. Per avere una distribuzione più corretta è possibile guardare la figura che segue.

[fonte cartina: npr.org]
Questo non è sufficiente a spiegare perché quasi nessuno di questi paesi ha apertamente preso le difese dei “fratelli musulmani” contro Israele. La realtà è che la situazione in Medio Oriente è molto più complessa. Per comprendere il comportamento di molti dei leader dei paesi coinvolti (o che potrebbero esserlo) è necessario analizzare diversi fattori, facendo attenzione a non cadere in polemiche sterili o in ricostruzioni storiche di parte. E senza dimenticare che da molti decenni, il diritto internazionale umanitario cerca di risolvere questioni diplomatiche come queste. Ma finora senza alcun successo.
Il primo fattore da considerare è che una guerra è ormai un miliardario. Quella che per alcuni è una perdita considerevole in termini di uomini e capitali, per altri paesi è un affare senza eguali. “Le guerre sono vettori di crescita per l’economia perché producono manifattura, produzioni e forniture varie”, ha detto in un’intervista al Tg1 Valerio De Molli, amministratore delegato di European House Ambrosetti in una pausa dell’annuale appuntamento di Cernobbio dove il gotha dell’industria e della finanza si confronta con i leader politici. Dal punto di vista degli economisti finché c’è guerra c’è speranza per il mondo imprenditoriale e per i paesi che combattono (e vincono, per gli altri molto meno). Questo spiega come mai nessun paese occidentale ha mai fatto nulla per esercitare pressioni diplomatiche per far finire rapidamente alcune delle guerre più recenti. Nel migliore dei casi ci si è limitati a vendere armi a questo o a quel contendente. O a entrambi. Secondo i dati del SIPRI, nel 2023 la spesa degli Stati Uniti d’America in armi e armamenti ha raggiunto la cifra spaventosa di 916 miliardi di dollari, più di quanto hanno speso gli altri 9 paesi tra i primi 10 che hanno speso di più! Fomentare asti e rancori e poi vendere armi e armamenti ai paesi in guerra, per molti governi è una gallina dalle uova d’oro. Anche in Europa: 39 dei 43 paesi europei hanno aumentato la spesa in armi e armamenti (Italia inclusa, ovviamente). Nel 2023, la spesa militare in Medio Oriente è cresciuta del 9,0%, con aumenti considerevoli soprattutto in Arabia Saudita, Israele e Turchia. La guerra tra Israele e Hamas è stata il principale motore dell’aumento (del 24%) delle spese militari israeliane.
In generale, dal 2003 ad oggi, fatta eccezione per un brevissimo periodo durante la pandemia, la vendita di armi a paesi terzi è cresciuta costantemente anno dopo anno. A chi sono state vendute queste armi? Nel periodo 2019/23, i cinque maggiori importatori di armi sono stati India (che però veniva da un livello di dotazioni molto basso), Arabia Saudita, Qatar, Ucraina e Pakistan. Vale a dire tutti paesi mediorientali coinvolti, direttamente o indirettamente, in qualche conflitto. Paesi che, insieme all’India, hanno rappresentato addirittura il 35% delle importazioni totali di armi vendute nel mondo. Un mercato al quale nessun paese esportatore vorrebbe rinunciare. Interessante notare che i 170 grossi importatori sono tutti (o quasi) direttamente coinvolti in conflitti armati o in tensioni con altri stati in cui le principali armi importate svolgono un ruolo importante.
Ma non basta. Da non trascurare un altro aspetto, anche questo legato a motivazioni economiche (da sempre le guerre si combattono per i soldi e non per principi morali o altro). L’Iran è un grande produttore di petrolio. Le sue riserve lo collocano al quarto posto mondiale (dopo Venezuela, Arabia Saudita e Canada), seguito dall’Iraq. Insieme, Iran e Iraq dispongono delle maggiori riserve di petrolio al mondo (anche considerando la crisi venezuelana e il fatto che il petrolio canadese è per la maggior parte “sporco” e quindi difficile e costoso da estrarre e raffinare). Questo fa dell’Iran un concorrente pericoloso dell’Arabia Saudita all’interno dell’OPEC, l’Associazione dei paesi produttori di petrolio. Anche come raffinazione l’Iran è ai primi posti al mondo (occupa il quinto posto). Da non dimenticare che, in barba alle promesse ambientaliste (per il terzo anno consecutivo, anche la COP29 quest’anno si terrà in un paese che fa di petrolio e gas naturale le basi delle proprie finanze), il petrolio ha ancora un peso non indifferente sull’economia mondiale. Il petrolio viene utilizzato principalmente nei trasporti (benzina e diesel), ma è anche alla base della produzione di lubrificanti, materie plastiche e prodotti farmaceutici. E i primi 10 maggiori produttori di petrolio producono il 71% del petrolio mondiale, pari a oltre 100 milioni di barili al giorno.
Per chi si chiedeva come mai finora l’Arabia Saudita non ha fatto molto per fermare Israele, basti pensare che, da tempo, cerca di avere il controllo assoluto sull’OPEC (fino al punto, non molto tempo fa, di piegarsi e decidere una linea comune proprio con gli iraniani). Questo spiega come mai l’unico paese arabo (a maggioranza sunnita) ad aver cercato di fare da mediatore è il Qatar: anche questo paese cerca da tempo di assumere la leadership dell’OPEC. “Pieno sostegno al Libano aggredito”, ha dichiarato l’emiro del Qatar, lo sceicco Tamim bin Hamad Al-Thaniche. Che ha aggiunto di aver ordinato la fornitura di aiuti al Paese in difficoltà alla luce degli attacchi di Israele. “Affermo il pieno sostegno dello Stato del Qatar al Libano e al suo popolo fraterno contro i brutali attacchi di cui sono vittime”, ha dichiarato l’emiro sulla piattaforma di social media X, aggiungendo di aver ordinato “un’azione rapida e la fornitura di tutte le risorse necessarie” per fornire aiuti alle comunità colpite. Ovviamente diversa la sua posizione con l’Iran.

[Benjamin Netanyahu [Photo by Shaul GOLAN / POOL / AFP)]
C’è un altro aspetto da non trascurare. Una crisi che colpisse seriamente le riserve petrolifere di un paese come l’Iran comporterebbe un aumento del costo del petrolio. Con benefici incalcolabili per gli altri paesi produttori. A segnalare il rischio è stata la Banca mondiale e già lo scorso anno: un suo rapporto pubblicato alla fine del 2023 si parla dei rischi di un’interruzione delle forniture di petrolio in Medio Oriente che avrebbero causato un’impennata dei prezzi dell’energia che avrebbe ripercussioni anche in termini di insicurezza alimentare globale (anche sulla scia di quanto è avvenuto in Ucraina). Un evento che il capo economista Indermit Gill aveva descritto come uno “shock per i mercati delle materie prime che non si vedeva dagli anni Settanta”.
Ma l’Iran non è ricco solo di petrolio e gas naturale. Secondo un report di PressTV del 2020, il settore minerario iraniano disporrebbe di alcune delle più importanti ricchezze del mondo (spesso ampiamente sottovalutate e non utilizzate). Un patrimonio naturale che comprende circa 68 diversi tipi di minerali tra i quali soprattutto metalli rari. E poi titanio, magnesio, antimonio, renio, arsenico e molto altro ancora. A Fanuj, nella provincia di Sistan-Baluchistan, vicino al confine con il Pakistan orientale ci sarebbero decine di miniere di titanio, ciascuna in grado di produrre milioni di tonnellate di questo prezioso minerale ogni anno. E poi ci sono quelle di Kahnuj nella provincia di Kerman e quelle vicino a Orumieh. Miniere poco sfruttate ma che certamente fanno gola a molti.
Tutto questo ha un peso non indifferente anche sui mercati finanziari internazionali (davvero c’è chi pensa che non ci sia un interesse da parte dei grandi investitori per ciò che sta avvenendo in Israele?). Già alla fine dello scorso anno, alcuni analisti avevano valutato l’impatto sui mercati, a partire dalle Borse. “Il rischio principale è il peggioramento della situazione nella regione e un potenziale rapporto tra Israele e Iran, con ipotetiche conseguenze molto significative. Non solo l’Iran è un grande produttore di petrolio, ma potrebbe nuovamente bloccare lo Stretto di Hormuz e distruggere i campi petroliferi vicini. La reazione di Hezbollah, la milizia sostenuta dall’Iran in Libano, nel fine settimana è rimasta simbolica senza un’azione militare significativa”, aveva dichiarato Benjamin Melman, Global CIO Asset Management di Edmond de Rothschild AM. “La destabilizzazione del Medio Oriente porta pressioni fortemente rialziste sulle quotazioni del petrolio e spinge gli investitori a guardare verso beni rifugio (bond, usd, chf, jpy, oro)”, aveva aggiunto in una nota Filippo Diodovich, Senior Market Strategist di IG Italia.
E se questi motivi non bastassero a spiegare perché Israele (e i suoi alleati) sta attaccando l’Iran, se ne può aggiungere un altro. Da anni è in atto un tentativo di destabilizzazione delle Nazioni Unite come soggetto in grado di gestire le controversie globali. Basti pensare alle decisioni del governo USA e al mancato riconoscimenti dei trattati sui diritti umani (dei 18 in vigore, gli USA ne hanno ratificati meno di un terzo!). Avere un paese alleato, che compra miliardi di armi e armamenti e che contemporaneamente dimostra quanto siano inutili gli organi delle Nazioni Unite non può che fare comodo a chi vorrebbe destituire le Nazioni Unite (o controllarle).
Da non trascurare anche il coinvolgimento degli USA nella guerra, anzi nelle guerre avviate dagli israeliani. Secondo l’ultimo rapporto Costs of War della Brown University di Providence, solo nell’ultimo anno gli Stati Uniti d’America avrebbero fornito a Israele circa 18 miliardi di dollari in armi. A questa cifra, inoltre, si aggiungono quasi 5 miliardi di dollari spesi dal governo statunitense per operazioni nella regione. Ma si tratta di una “stima conservativa”, afferma lo studio, che, sebbene consideri “i finanziamenti supplementari per le operazioni regionali e i costi aggiuntivi stimati delle operazioni”, non include “gli altri costi economici” e le perdite, come per esempio quelle dovute ai rincari sul traffico marittimo sul Mar Rosso.
Il coinvolgimento degli USA in questa e in altre guerre non riguarda solo la vendita di miliardi di dollari di armi, ma anche per la possibilità di aprire nuovi mercati per il GPL americano (come è avvenuto in Europa a seguito della guerra russo-ucraina). Solo pochi giorni fa, il presidente USA uscente, Biden, ha dichiarato che “con Israele stiamo valutando raid su impianti di petrolio iraniani” e attacchi contro le installazioni petrolifere iraniane. C’è, però, anche un altro motivo che potrebbe spiegare, almeno in parte, la voglia sfrenata di Israele di bombardare a tappeto alcuni paesi. La Corte penale internazionale non è l’unico tribunale ad aver emesso una condanna nei confronti del leader israeliano. Nel 2020, appena tornato al potere dopo un lungo periodo di stallo politico, Nethanyau è finito sotto processo accusato di diversi reati. Per Israele, sarebbe stata la prima volta che un primo ministro in carica veniva contemporaneamente processato. Le accuse che pesano sul premier sono tre: frode, corruzione, abuso di fiducia. Il 24 maggio 2020, Netanyahu si presentò dinanzi ai giudici invocando la propria innocenza ma, come spesso avviene in questi casi, affermando che quello in atto era un tentativo di “abbattere un premier forte e di destra”. In un primo momento il processo è stato rinviato a causa della pandemia. Poi è ripreso ma è stato interrotto di nuovo a causa dell’ “emergenza” dovuta all’attentato del 2023. In caso di condanna per corruzione, Netanyahu potrebbe essere condannato a pene detentive molto pesanti (più di anni di prigione). E la sua carriera politica si concluderebbe molto male. Se la Corte dovesse ritenere colpevole Netanyahu dei reati di cui è accusato la Corte potrebbe chiedere alla Knesset di votare per la sua rimozione: in questo caso, almeno 61 parlamentari su 120 dovrebbero votare contro il leader del Likud. Se Netanyahu dovesse essere condannato e costretto a lasciare la guida del Governo, in teoria il Paese tornerebbe al voto: Gantz infatti ha fin da subito affermato che, senza Netanyahu, il governo attuale verrebbe sciolto, sulla base degli accordi presi dai due leader durante le trattative degli ultimi mesi. Ma fino a quando continuerà l’emergenza, nessuno si prenderà mai la responsabilità di lasciare il paese senza un premier (che peraltro vanta il record di anni al potere).
Da non trascurare anche un altro motivo per cui i paesi occidentali finora hanno fatto poco o niente per fermare Israele. Questo paese occupa una posizione geopolitica strategicamente importantissima non solo per il Medio Oriente, ma, in generale, per buona parte dell’Asia.
Un alleato importante anche per un altro motivo. Finora le guerre, le missioni di pace condotte dai paesi occidentali in quest’area (e in altre) si sono rivelate tutte un completo fallimento. Si pensi, ad esempio, alla fuga rovinosa dall’Afghanistan lasciato nelle mani dei talebani. O all’incapacità di risolvere la questione in Siria e nello Yemen. Avere un “alleato” che fa il lavoro sporco e dice di voler eliminare i terroristi dall’area potrebbe essere tollerato. Anche a costo di essere costretti a fingere di non vedere le innumerevoli violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario da parte di Israele (si pensi ai veti ripetutamente utilizzati dagli USA per evitare la condanna di questo paese da parte della Corte di giustizia internazionale, almeno fino a quando queste violazioni non sono state troppo evidenti e palesi, a quel punti gli USA hanno preferito astenersi).
Tutto questo rimanda al quesito iniziale. Perché Israele vuole a tutti i costi una guerra? L’odio razziale nei confronti dei musulmani e, in particolare, dei sunniti non c’entra niente. “Non è possibile giustificare in alcun modo un sistema edificato sull’oppressione razzista, istituzionalizzata e prolungata, di milioni di persone. L’apartheid non ha posto nel nostro mondo e gli stati che scelgono di essere indulgenti verso Israele si troveranno a loro volta dal lato sbagliato della storia. I governi che continuano a fornire armi a Israele e lo proteggono dai meccanismi di accertamento delle responsabilità delle Nazioni Unite stanno sostenendo un sistema di apartheid, compromettendo l’ordine giuridico internazionale ed esacerbando la sofferenza della popolazione palestinese. La comunità internazionale deve affrontare la realtà dell’apartheid israeliano e dare seguito alle molte opportunità di cercare giustizia che rimangono vergognosamente inesplorate”, ha dichiarato a febbraio 2022 (ovvero ben prima dell’attacco del 7 ottobre 2023) Agnès Callamard, Segretaria Generale di Amnesty International. Nel suo rapporto di 278 pagine, Amnesty International ha descritto il sistema di oppressione e dominazione di Israele nei confronti della popolazione palestinese, sia quelli residenti in Israele, che quelli dei Territori palestinesi occupati e i rifugiati che vivono in altri Stati, parlando di massicce, requisizioni di terre e proprietà, di uccisioni illegali, di trasferimenti forzati, di drastiche limitazioni al movimento e del diniego di nazionalità e cittadinanza ai danni dei palestinesi. Modi di operare che per Amnesty International, secondo il diritto internazionale, significherebbero apartheid. Gravi violazioni dei diritti umani che sarebbero crimini contro l’umanità così come definito dallo Statuto di Roma del Tribunale penale internazionale e dalla Convenzione sull’apartheid. una situazione per la quale nessun politico occidentale ha mosso un dito prima e dopo il 7 ottobre 2023 (diverso il comportamento in occasione dell’anniversario del 7 ottobre 2023).

[fonte foto: corriere.it]
Tornano in mente le parole (pubblicate pochi giorni fa dal Guardian) di una ragazza che a ottobre 2023, all’inizio dei bombardamenti a tappeto da parte degli israeliani, ha dovuto lasciare la propria casa nella parte est di Gaza. Da allora è iniziato il suo calvario: “Non abbiamo acqua in tutta la casa e le scorte di cibo sono quasi finite. La farina è stata costosa e scarsa, quindi a volte abbiamo dovuto usare mangimi per animali per la cottura. Mi sento triste per le mie sorelle perché non ricevono il nutrimento di cui hanno bisogno. Sono bambini e i loro corpi stanno crescendo, quindi spesso si sentono stanchi”. “Per i giovani come noi, vivere in una zona di conflitto ha un impatto che può durare tutta la vita. Tutto qui è nel caos, tutte le cose che vediamo e sentiamo, e anche dove viviamo. Limita il nostro accesso all’istruzione, all’occupazione e a un ambiente sicuro”. “Molti dei bambini sono traumatizzati dall’aver assistito alla violenza e dalla perdita dei propri cari, e questo può avere effetti psicologici a lungo termine”. “Il collasso economico e la mancanza di infrastrutture rendono difficile per i giovani immaginare un futuro stabile o pianificare una vita normale”. La sua conclusione è la risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio: “Questo mi fa venire voglia di porre una domanda alle persone in Occidente e in Israele: “Non siamo umani proprio come voi?” E la risposta? Beh, non c’è risposta”.
Palestinesi, iraniani, iracheni, sciiti, sunniti…a chi pensa ai soldi e al potere, tutto questo non interessa. La guerra che da molti anni va avanti in Medio Oriente (ben prima del 7 ottobre 2023) è una “zona grigia”, uno spazio intermedio nello spettro del conflitto politico che separa la competizione secondo i modelli convenzionali di fare politica (bianco), dal confronto armato diretto e continuo (nero). Una guerra divisa tra la volontà sfrenata di “fare guerra” e di farla durare il più a lungo possibile ricorrendo a strategie multidimensionali, ibride, con un’implementazione graduale e obiettivi a lungo termine e, dall’altro lato, l’orrore delle migliaia di bambini innocenti morti. Come ha spiegato Javier Jordán in una relazione presso l’Università Rey Juan Carlos di Madrid il 28 ottobre 2021.
Non c’è una risposta razionale alla guerra nella Striscia di Gaza. Né a quella in Libano e nemmeno a quella che alcuni vorrebbero estendere all’Iran e, forse, a buona parte del Medio Oriente. Così come non c’è alcuna spiegazione razionale per le tante “guerre grigie” in atto in questo momento. A cominciare da quella tra Russia e Ucraina o in Sudan o in Siria o nello Yemen (se ne parla poco, ma la situazione è tutt’altro che risolta). Zone grigie intorno alle quali ruotano molti paesi, la Nato vittima di pressioni incredibili, l’ONU (incapace di far rispettare le proprie decisioni e di reagire a risposte oltraggiose come aver dichiarato il segretario Generale “persona non gradita” in Israele o aver visto gli USA negare il visto al presidente della Corte di tribunale penale internazionale) e l’intero sistema che si basa sul diritto internazionale umanitario.
“Dobbiamo credere che ci sia speranza, ma in questo momento sta diventando sempre più difficile”, ha detto una ragazza palestinese. “Stiamo solo aspettando che qualcuno ci dica che la guerra è finita”.
Il punto è che sono in molti, troppi, a non volere smettere di fare la guerra.