La natura umana non cambia, essa tuttavia esprime la propria parte migliore o peggiore nell’incontro con gli eventi che la Storia le fa vivere. Possiamo ancora affermare che la Storia sia “maestra di vita”? La Storia ha ancora delle lezioni da dare? Cosa possiamo trovare nel passato che sia utile a costruire il futuro?
A queste ed a tante altre domande del genere “chi siamo?” e “da dove veniamo?” continueremo in eterno a cercare una risposta oggettiva, eppure la vera domanda è, forse, un’altra: siamo il prodotto dell’evoluzione dovuta all’esperienza o, piuttosto, abbiamo dentro di noi una spinta a “crescere” che si esprime comunque e dovunque?
Così posta, la domanda può più facilmente trovare una risposta, parziale, aperta, opinabile ma, probabilmente, abbastanza in grado di orientare i nostri comportamenti e le nostre scelte. Da filosofo prestato alla formazione e al management ho sempre avuto nei confronti della Storia un sentimento ambivalente che mi ha sovente condotto a non accontentarmi delle versioni ufficiali né, tanto meno, di quella particolare storia “scritta dai vincitori”.
Da Erodoto a Paolo Diacono, da Vasari a Gibbon, da Toynbee a Hobsbawm, da Gentile a De Felice, da Mac Smith a Schlesinger, il mestiere di storico ha sempre avuto il proprio osservatorio su popoli, su nazioni e al più, sui grandi protagonisti, coloro, cioè, che “hanno fatto la storia”.
Non è facile, al contrario, rintracciare storici che abbiano indagato sui comuni individui di cui però la Storia si nutre e, spesso, divora. Tale compito è stato tradizionalmente lasciato ai poeti e ai narratori che, nelle folle delle epoche hanno “isolato” singoli individui o piccoli gruppi di essi, cercando di indagarne le vite, umane, umanissime, nell’incontro con i grandi eventi che siamo soliti chiamare storici.
Ed ecco, di colpo, date, battaglie e armistizi, luoghi e personaggi ci hanno raggiunto direttamente perché attraverso essi il narratore ha fatto comprendere le radici e gli effetti degli eventi o, paradossalmente, il contrario.
Abbiamo notizie dell’Armata napoleonica in Russia più da Tolstoy che da Bogdanovic, della Prima Guerra Mondiale più da Bedeschi o da Hemingway piuttosto che Gilbert, della battaglia di Waterloo da Hugo piuttosto che da Taine o da Courrier, della Guerra in Libano più da Oriana Fallaci (Inshallah) che da Fisk, sulla Shoà più da Levi, o dallo Spielberg di Schindler’s List, che da Fest e potremmo continuare con l’elenco infinito degli eventi storici e con l’altrettanto storica contrapposizione tra storici di professione e narratori.
E’ vero allora che possiamo distinguere tra la storia degli eventi e la storia di coloro che tali eventi hanno vissuto. Ed è altrettanto vero che riusciamo a comprendere la prima molto più facilmente attraverso la seconda perché l’una parla alla memoria volatile di date e fatti e l’altra alle emozioni che non hanno tempo, cioè alla più intima natura dell’uomo.
Per un formatore, ovviamente, non vi è alternativa: formare attraverso la Storia vuol dire favorire in coloro che apprendono la conoscenza del progressivo dispiegarsi e, a volte, ripiegarsi, della coscienza su stessa; vuol dire indagare le ragioni e le condizioni per cui l’uomo può sollevarsi sino al martirio o abbassarsi sino all’abominio; vuol dire, in ultimo, favorire la consapevolezza che nell’uomo sono in posizione di assoluta parità di condizioni di partenza sia il massimo bene che il massimo male.
Formarsi coincide allora con la progressiva capacità di riconoscere il male che è in noi e di esorcizzarne le potenzialità attraverso il potenziamento di quanto c’è di più buono. Ne deriva la rivalutazione del concetto di “educare” che non può essere neutro ma sempre accompagnato da quel “a…”che ne definisca il parapetto sul baratro per proiettarsi verso il balzo (necessario per i greci che lo chiamarono il sym –ballo e poi i latini simbolum) della possibilità.
Se allora il racconto della Storia è epifania delle “possibilitazioni” che sino ad oggi sono state sperimentate e tramandate, la fine della storia (teoria ingiustamente addebitata al povero Fukujama da molti citato e da pochissimi letto) non può che coincidere con l’ultima vita dell’ultimo uomo, nell’ultimo giorno della propria vita, poiché sino ad allora egli non cesserà di gettare un ponte tra ciò che è e ciò che potrebbe/vorrebbe essere ed identificarsi con quello e persino da morto, continuerà a parlare agli altri in quanto testimone (che i greci traducevano con martyur) di una delle infinite opzioni offerte alla coscienza per diventare eterna.
La grande lezione di Heidegger dell’esserci, dello storicizzarsi, del determinare mondi storici nel lasso di tempo fra la vita e la morte, diventa il progettare, cioè il tornare indietro alle possibilità ricevute in eredità e tramandarne di nuove.
Quanti insegnamenti allora la vera Storia ci impartisce: prima di tutto quello di non crederci i primi, o gli ultimi, randomizzati da un destino cieco, quanto, piuttosto, gli anelli di una catena che viene da lontano e che va lontano. E, ancora, la responsabilità di tra-dere cioè di consegnare, modificato e arricchito, ciò che abbiamo ricevuto, sia esso ambiente, cultura, idee, progresso, consapevolezze, paure e timori, a chi verrà dopo di noi; l’obbligo di fare della nostra vita una narrazione, l’unica via possibile che altri potranno seguire per capire come proseguire; il dovere di lasciare delle tracce non ambigue ma chiare e nette sul sentiero che ci è toccato in sorte di percorrere nel tempo e nei tempi che ci sono stati assegnati.
Purtroppo nella tradizione scolastico/universitaria del nostro Paese, la Storia ha un ruolo marginale: essa viene insegnata con un approccio didascalico e, per l’appunto, storicistico, ridotta cioè ad un insieme di fatti e di date, rapidamente memorizzate per un esame e, subito dopo, altrettanto rapidamente dimenticate.
Solo raramente se ne studiano le connessioni con le evoluzioni della economia e delle società, quasi mai con con lo sviluppo della coscienza individuale e collettiva. Non è così nella maggior parte dei Paesi occidentali dove la storia, come peraltro la filosofia, la psicologia, la pedagogia e la stessa economia sono studiate “per problemi”, dando vita a quell’esiziale differenza tra “analitici” e “continentali” che non casualmente fa degli studi storico/filosofici anglo sassoni i migliori.
Nella cosiddetta formazione manageriale, poi, la storia è assente. Credo di conoscere per lunga esperienza, decine di programmi di master di ogni livello, universitari e non, dove sono proposte tematiche e metodologie di ogni genere, talvolta sull’ onda di mode del momento o di suggestioni che vanno dal rispettabilissimo ZEN al cosiddetto “cooking, creativo”.
Quasi mai mi sono imbattuto in progettazioni che a livello alto prendessero le mosse da analisi storiche di territori, di economie, di società o di pensiero. Raramente, con l’eccezione delle Scuole militari oggi di sicuro maggior livello rispetto al passato, ho visto formare futuri dirigenti sui testi dei grandi strateghi o di coraggiosi navigatori e tanto meno, ne ho visto raccontare la vita e indicarne l’esempio.
Eppure da questo punto di vista non mancano le correlazioni tra il management e la storia, dal momento che il primo è fondato sulle strategie, sul governo delle cose e degli uomini e sul cambiamento tattico per raggiungere obiettivi e la seconda è la sintesi degli errori e dei successi al riguardo su scala mondiale, per ogni cultura.
Eppure, mai come oggi, le scienze manageriali sono fondate sulla crucialità delle informazioni, sulla necessità di stringere alleanze, sul coraggio di agire prima di altri, sul sacrificio personale, sulla capacità di condurre i propri collaboratori generando in essi fiducia e consenso e premiandone, portandoli ad esempio, i risultati.
Sono questi gli elementi che rintracciamo nella Storia allorché essa è descrizione dell’evoluzione delle potenzialità umane ed hegeliano pieno affermarsi del pensiero in azioni che, comunque, modificano il mondo.
Non dovrebbe esservi introduzione al mondo dell’organizzazioni che non si aprisse con le mappe delle grandi battaglie o con le rotte delle navigazioni oceaniche o, ancora, con il racconto di imprese, da molti ritenute impossibili e da qualcuno, fuori dal coro, realizzate con successo.
Non dovrebbe esservi sessione sulla leadership che non vedesse protagonisti Leonida alle Termopili, Napoleone a Sant’Elena o l’Hitler degli ultimi giorni nel crepuscolo del tragico bunker, tre modi diversi di vivere la sconfitta.
Perché non ricordare ai nostri futuri manager – a molti degli attuali auguro una ritirata operosa – che prima di ogni grande sfida, le parole rivolte ai propri uomini da Giulio Cesare, Enrico V, Oratio Nelson, Winston Churchill, Bob Kennedy, sono sempre state le stesse, pur in lingue e in sintassi diverse ?
Sono state le parole dell’umiltà e della dignità, del coraggio e dell’ascolto, dell’attesa e della pazienza, della speranza e del sacrificio, e, soprattutto, sono state accompagnate dall’esempio personale agito per piena convinzione e vera testimonianza e non burlescamente recitato e successivamente smentito da comportamenti opposti.
Concludo queste brevi riflessioni con il pensiero di due grandi intellettuali e compianti amici e maestri che, in campi apparentemente diversi, hanno dato uno straordinario contributo per comprendere il mondo in cui abbiamo vissuto e da cui esitiamo a distaccarci.
A Palermo, durante l’ultimo viaggio fuori dagli Stati Uniti nel 1997, Franco Modigliani, guardando la città dall’alto del Castello Utveggio su Monte Pellegrino, ancora oggi sede del CERISDI, ebbe a dirmi con pieno convincimento che “finchè la storia sarà fondata sulla recriminazione e sull’attribuzione agli altri dei nostri insuccessi, non ci sarà futuro e lo sviluppo prenderà altre strade. La nostra unica possibilità risiede nel riconoscimento degli errori che abbiamo commesso e nel tentativo, l’umano e possibile tentativo, di non ripeterli”
A Salò nel 2005, durante un indimenticabile Seminario AIF sul tentativo di far dialogare giovani e formatori e coetanei docenti universitari, Emanuele Severino ci ricordò che “la storia dell’Occidente è la storia della dialettica tra l’eterno e il divenire, dialettica che, però, deve tramontare, perché il divenire sia l’unica verità. La tecnica compie questo tramonto, perché aderisce completamente alla tendenza annientante del divenire nichilistico. La sua struttura è ipotetica in quanto tale, ed è solo per questa sua capacità di non radicarsi su un fondamento stabile, che permette alla tecnica di dominare tutto l’essente. Sciolta da qualsiasi legame la tecnica diventa la struttura che più si può adattare ai continui mutamenti del divenire, di quel divenire che per tutta la storia dell’Occidente rimane l’evidenza assoluta della realtà. Ma perché la tecnica diventi l’espressione più coerente del divenire, gli immutabili della metafisica debbono tramontare”
Due altissime lezioni di storia – su cui ogni dibattito può e deve essere aperto – che sintetizzano la necessità di una nuova poiesis capace di ri-creare il mondo fuori da assoluti che ne limitino le possibilità, condizionandone l’ indifferibile ed entusiasmante nuova narrazione.
Allora la Storia contribuirà a quell’ecologia della mente tanto cara a Bateson e tornerà ad essere quell’albero maestoso alla cui ombra riposare per riflettere, per capire e poi riprendere il cammino, interpretando, ermeneuticamente il mondo che verrà quale mirabile sistema vivente di radici, fusto, fiori e frutti: destini individuali legati ad una funzione collettiva che li trascende mentre li esalta come indispensabili a generare la grande ombra che ci ristora.