L’aumento delle temperature medie del pianeta non è più una teoria ambientalista campata per aria: è una realtà. Una realtà le cui conseguenze potrebbero essere gravi. A tutti i livelli e in tutti gli ambiti: sociale, geopolitico e soprattutto alimentare.
Secondo i ricercatori, entro la fine del secolo (ma alcune stime dicono molto prima) i cambiamenti climatici potrebbero causare flussi migratori di dimensioni mai viste prima: un miliardo di persone in cerca di un posto nuovo dove vivere, non a causa di guerre o problemi politici, ma per la carenza di cibo e le condizioni climatiche che ne derivano. Entro la fine di questo secolo, se le emissioni di gas a effetto serra continueranno ad aumentare al ritmo attuale, un terzo della produzione alimentare globale potrebbe essere a rischio.
L’aumento delle temperature (e lo sfruttamento intensivo e irrazionale) in alcune delle aree del pianeta potrebbe causare danni alla produzione agricola tali da non rendere più possibile soddisfare la domanda peraltro in continua crescita a causa dell’aumento della popolazione. Basterebbe un aumento medio delle temperature di 3,7°C per ridurre sensibilmente l’area “sicura”, l’area dove, proprio grazie a condizioni ideali di temperatura, precipitazioni e altri fattori, viene prodotto circa il 95% delle risorse agricole del pianeta.
Secondo uno degli autori della ricerca, Matti Kummu, professore associato dell’Università di Aalto, “Un terzo della produzione alimentare globale sarà a rischio. Dovremmo preoccuparci, poiché lo spazio sicuro per il clima è piuttosto ristretto”. “Dovremmo responsabilizzare le persone e le società nelle zone pericolose, per ridurre l’impatto e aumentare la loro resilienza e capacità adattiva”, ha aggiunto. Secondo Kummu, “Ci saranno vincitori e vinti, ma le vittorie saranno superate dalle perdite, e non c’è abbastanza spazio per la produzione alimentare per muoversi – siamo già ai limiti”.
Tra i settori maggiormente responsabili dei cambiamenti e, al tempo stesso, vittime delle conseguenze c’è certamente l’allevamento (anche a causa degli elevati consumi e della scarsità d’acqua). Secondo una ricerca condotta dal World Economic Forum, ogni anno vengono macellati 50 miliardi di polli (senza tenere conto dei pulcini maschi improduttivi uccisi nella produzione di uova). E poi un miliardo e mezzo di maiali, mezzo miliardo di pecore e 300 milioni di mucche. Questo solo in un anno per produrre cibo per il consumo umano.
Un problema che ha costretto molti a cercare soluzioni “alternative”. Una di queste potrebbe essere la carne prodotta in laboratorio, conosciuta anche come carne “sintetica”.
L’idea di realizzare la carne in laboratori specializzati non è nuova: già nel 2008, PETA, l’associazione internazionale no-profit per il trattamento etico degli animali, bandì un concorso che prevedeva un premio di un milione di dollari al laboratorio che sarebbe stato in grado di creare carne di pollo sintetica adatta alla commercializzazione entro il 2014. Nessuno riuscì nel tentativo. Ma la strada era ormai aperta. Così, pochi anni dopo, alcune aziende dimostrarono che produrre carne il laboratorio era possibile. Anzi era possibile proporla ai mercati: nel 2013, Mosa Meat, di Maastricht, è stata tra le prime a lanciare sul mercato un hamburger di manzo coltivato. Alla fine dello scorso anno, anche Eat Just ha iniziato a produrre “bocconcini di pollo” generati in un bioreattore da 1.200 litri a San Francisco.
Sorprendentemente veloci le autorizzazioni concesse per la commercializzazione di questi prodotti: a Dicembre 2020, la Singapore Food Agency (SFA) ha autorizzato la vendita di questi prodotti nei supermercati. Il mese prima, a Ness Ziona, vicino Tel Aviv, un ristorante, The Chicken, è diventato il primo a offrire ai propri clienti pollo sintetico.
Nessuno ha parlato di problemi etici o ambientali. Anzi. La carne coltivata in laboratorio è carne a tutti gli effetti, solo che non richiede l’uccisione di un animale nè conseguenze per l’ambiente per allevarlo. Ad oggi, pare che il vero ostacolo alla commercializzazione su grande scala della carne coltivata in laboratorio sia il suo costo di produzione: il primo hamburger sintetico “creato” da Mosa Meat nel 2013 aveva un costo di 250.000 Euro. Col tempo, il prezzo è calato, ma rimane ancora molto più alto della carne degli animali allevati in modo tradizionale: The Chicken, ad esempio, è riuscita a portare il costo di produzione di un hamburger a 35 dollari. Ancora troppo ma non impossibile. Specie considerando che si tratta di un settore in rapida evoluzione e c’è chi, come Future Meat Technologies, azienda con sede a Rehovot, in Israele, ha già annunciato che sarà possibile produrre carne in laboratorio a circa 20 Euro al chilogrammo entro il 2022.
Come? Partendo da cellule animali estratte direttamente dagli animali vivi, attraverso biopsie indolori, e poi “nutrite” con sieri di origine vegetale o animale all’interno di bio-reattori. Questo permette alle cellule di crescere e moltiplicarsi fino a diventare tessuto muscolare (ma non “muscoli”). Uno dei problemi per ora potrebbe essere proprio il costo di questi sieri.
Per abbattere i costi molti laboratori starebbero cercando di utilizzare per alimentare le cellule in vitro non più siero animale, ma siero vegetale o nutrienti sintetici.
Il prossimo passo sarà dare “forma” a questa carne sintetica. Attualmente, infatti, il prodotto di sintesi non ha una forma ben precisa (per questo, viene presentato come hamburger). Ma c’è chi, come la startup israeliana Aleph Farms, ha già brevettato una tecnologia per produrre la prima bistecca coltivata in laboratorio utilizzando una stampante 3D che permetterà la coltivazione delle diverse cellule che coesistono in una bistecca insieme al tessuto connettivo e al grasso.
Una fiorentina succulenta e gustosa fatta con una stampante 3D. Una soluzione che fa rabbrividire molti ma che, secondo alcuni, potrebbe essere una risposta alla sempre crescente domanda di carne: il consumo è aumentato del 58% negli ultimi 20 anni. Una soluzione, però, che, visti i costi attuali, certamente non risolverà il problema della fame nel mondo. Almeno non adesso.