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L’Ulisse siciliano di Stefano D’Arrigo. Quando lo Stretto diventa epica

di Luigi Sanlorenzo 12 Agosto 2020
di Luigi Sanlorenzo 12 Agosto 2020
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Mito di Colapesce [Renato Guttuso – pannelli a olio del 1985 esposti nel Teatro Vittorio Emanuele di Messina]

Le recenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, circa l’ipotesi degna di un Jules Verne in sedicesimo di realizzare il collegamento tra Sicilia a Calabria attraverso la costruzione di un tunnel sottomarino ha risvegliato intense emozioni ed ambivalenti sentimenti.

Il primo è un ricordo di natura personale e mi riporta indietro nel tempo ad uno dei riti di passaggio che segnano l’inizio dell’età adulta. Era l’estate del 1975 e stavo per affrontare l’esame di maturità. Il liceo classico era quello del Convitto Nazionale. Nel 1999 l’Istituto sarebbe stato intitolato a Giovanni Falcone che vi compì gli studi e da settembre prossimo sarà guidato, per la prima volta in centocinquanta anni, da un Rettore donna, la preside Concetta Giannino. Come ancora oggi, aveva un’unica sezione e pertanto, venimmo assegnati alla commissione esaminatrice di altre classi del Vittorio Emanuele II, prestigioso liceo statale fondato nel 1865, da cui peraltro era diviso solo da una cancellata interna nell’immenso edificio secentesco che era stato il Collegio Massimo dei Gesuiti. Oggi il Vittorio Emanuele II, dove insegnò anche Don Pino Puglisi, ha sede nello storico edificio che aveva ospitato l’Istituto Giuseppina Turrisi Colonna, poetessa risorgimentale antesignana dell’impegno politico delle donne siciliane. Quel quadrilatero dominato dall’abside della Cattedrale arabo normanna ed intitolata ai Sette Angeli, era uno straordinario concentrato di istituzioni scolastiche pubbliche di livello prestigioso. Oltre ai già citati Convitto Nazionale e Vittorio Emanuele II, vi prospettava infatti anche il liceo intitolato all’Abate Giovanni Meli e, non a caso, la strada che dal Mercato del Capo e dalla Guilla conduce al Cassaro, è ancora oggi denominata via delle Scuole. In poche centinaia di metri quadrati vi sono cresciute generazioni di uomini e di donne che hanno dato e danno lustro alla Sicilia, ovunque le proprie capacità li abbiano portati.

E’ ancora nella mia mente l’immagine degli scavi duranti i quali furono disseppelliti i cadaveri delle vittime del bombardamento del 18 aprile del 1943, tratte dal rifugio antiaereo che vi era stato allestito, forse confidando nella rispetto dovuto alla millenaria chiesa matrice intitolata alla Santa Maria Vergine Assunta e in cui si trova la tomba di Federico II di Svevia, Stupor mundi. Una stele al centro della piazza ricorda il massacro di tanti civili.

Quando penso di essere cresciuto dai sei ai diciotto anni tra quelle antiche pietre condividendone, non sempre in modo consapevole, il Genius loci con i tanti personaggi illustri che vi studiarono, mi coglie ancora oggi una vertigine.

Osservata una pausa dovuta all’inevitabile commozione di cui mi scuso con i lettori, riprendo il filo della narrazione di quei giorni.

Tra i candidati delle due scuole, in qualche occasione incontrati duranti rare partite di pallone nel cortile comune, scattò subito la solidarietà e lo scambio ansioso di notizie circa la commissione, il piglio dei componenti – tutti esterni tranne uno – le domande più frequenti, gli elaborati presentati in sede di colloquio, allora non obbligatori, in forma di tesine. Ce n’erano solo alcune, perlopiù rielaborazioni personali di autori studiati nel percorso liceale ma tuttavia utili ad incrementare il punteggio finale, in vista del mitico 60/60 che a quel tempo rappresentava una valida chance per concorsi e curriculum vitae, come sperimentai in seguito di persona.

Non so se fu l’avvenenza della giovanissima autrice o l’originalità dell’elaborato a conquistarmi. Vista l’età di entrambi, propenderei per la prima causa, ma non trascurerei la seconda. Pochi mesi prima era stata pubblicata da Mondadori l’opera monumentale del poeta, scrittore e critico d’arte Stefano D’Arrigo (Alì Terme 1919 – Roma 1992). Horcynus Orca, romanzo allora poco noto e pochissimo letto, è oggi riconosciuto come uno dei capolavori della letteratura post moderna; la gestazione era durata più di venti anni e molte erano state le perplessità dei consulenti editoriali a cui era stato presentato. E ciò, nonostante la notorietà già consolidata dell’autore.

L’esposizione della candidata fu brillantissima ed addolcita dalla pronuncia deliziosa di una erre francese che conferiva grazia al commento delle asperità del testo, indubbiamente impegnativo. Il risultato fu scontato e seppi in seguito dell’ammissione della ragazza alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Portai con me il testo di D’Arrigo durante il viaggio vagabondo in autostop nelle Isole Britanniche il mese successivo e fu la scoperta delle origini più profonde, legate al destino dell’insularità dell’anima, che da allora non avrei mai smesso di scandagliare.

Dopo quarantacinque anni, quel ricordo non mi ha mai abbandonato e torna spesso a visitarmi nei sogni, come accade per la maggior parte delle persone che hanno vissuto l’esperienza degli esami di maturità, ma senza angoscia, piuttosto con infinita nostalgia di persone care e di sensazioni profonde.

Ed è proprio il tema universale del νόστος (nostos, ritorno) che colloca l’opera di D’Arrigo nel solco della  grande tradizione omerica del ritorno dell’eroe, poi reinterpretata da James Joyce, ma con in più un’attenzione alla cultura e alla letteratura del mare – vale a dire a Melville, Conrad, Stevenson o all’ Hemingway de Il vecchio e il mare – che portarono alcuni scienziati al proporre per l’autore una laurea honoris causa in oceanografia.

All’uscita vendette subito 80.000 copie (più altre 25.000 dell’edizione economica successiva, e 20.000 di una nuova edizione economica) ottenendo attenzione dai maggiori critici e da diversi colleghi scrittori dell’epoca, come Mario Grasso, Giacomo Debenedetti, Maria Corti, Ignazio Baldelli, Gianfranco Contini, Claudio Magris, Vittorio Sereni, Geno Pampaloni, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Caproni, Giovanni Raboni, Luigi Malerba, Vincenzo Consolo, Primo Levi, Giuseppe Pontiggia e Alfredo Giuliani.

Il romanzo, di ben 1257 pagine, narra le vicende di ‘Ndrja Cambrìa, marinaio della Regia Marina che ritorna, dopo il Proclama Badoglio dell’8 settembre 1943 a Cariddi,  suo paese natale sulle rive dello Stretto di Messina, scenario magnifico e allo stesso tempo tremendo di tutto il racconto e numerose sono le digressioni sotto forma di flashback che raccontano episodi anche precedenti.

Esperimento letterario d’avanguardia, complesso e raffinato, costruito con un linguaggio nuovo che ha le radici nell’antica lingua siciliana (come poi, ma su ben altro registro narrativo, avrebbe fatto Andrea Camilleri)  il testo  non è diviso in capitoli, talvolta una linea bianca separa la fine di una frase dall’inizio del periodo successivo. Tuttavia, è possibile dividere l’opera in tre parti che corrispondono a due stacchi tipografici seguiti da un cambio di pagina.

Come nell’epos omerico, D’Arrigo,  che non a caso si era laureato con  una tesi su Friedrich Hölderlin, fa sfilare accanto a  ‘Ndrja Cambrìa entità vissute tra sogno e realtà che popolano lo scenario indescrivibile del braccio di mare tra Scilla e Cariddi, fonte inesauribile di racconti, miti e favole fin dall’antichità.

Come nelle tragedie greche, il coro è rappresentato dalle femminote che raccontano essere impossibile trovare un passaggio per la Sicilia perché gli angloamericani hanno affondato tutte le imbarcazioni, tutti i ferribò (ferry boat) in servizio da e per la costa calabra; si lamentano che su quelle imbarcazioni loro hanno passato la vita, hanno viaggiato, contrabbandato, partorito, e qualcuna afferma anche di esservi stata violentata.

Ed è su un traghetto che lo porta da Villa San Giovanni a Messina, che l’emigrato in visita alla madre,  Silvestro Ferrauto, protagonista di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini,   conosce un piccolo siciliano disperato con una moglie bambina, che lo scambia per americano e gli offre delle arance.

Come tanti di noi che su quei traghetti hanno lasciato la Sicilia, talvolta per tornarvi un giorno e più spesso mai, ascoltando i richiami di mamme in apprensione che ci invitavano a mangiare le ultime arancine prima di dimenticarne il sapore, lassù in quel  Continente da cui persino la lingua, specchio del pensiero,  ci ha spesso allontanati, sospettosi di perdere qualcosa o forse timorosi di acquisirne altre, in una drammatica equivocazione dell’identità siciliana di cui ho già scritto su queste pagine.

Sbarcano da un traghetto i protagonisti del romanzo – testamento di Leonardo Sciascia, Una Storia semplice, pubblicato nel 1989 ed ispirato al furto della Natività di Caravaggio dall’Oratorio di San Lorenzo avvenuto venti anni prima. Nel testo ci imbattiamo nel dialogo tra il prof. Carmelo Franzò, anziano docente illuminista, razionale, “siciliano d’alto mare” e un ex allievo, divenuto un arrogante magistrato:

“Il magistrato si era intanto alzato ad accogliere il suo vecchio professore. «Con quale piacere la rivedo, dopo tanti anni!». «Tanti: e mi pesano» convenne il professore.
«Ma che ne dice? Lei non è mutato per nulla, nell’aspetto». «Lei sì» disse il professore con la solita franchezza. «Questo maledetto lavoro… Ma perché mi dà del lei?».

«Come allora» disse il professore.

«Ma ormai…». «No». «Ma si ricorda di me?». «Certo che mi ricordo».

«Posso permettermi di farle una domanda?… Poi gliene farò altre, di altra natura… Nei componimenti di italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?».

«Perché aveva copiato da un autore più intelligente».

Il magistrato scoppiò a ridere. «L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è

poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…».

«L’italiano non è l’italiano: è il ragionare» disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto». La battuta era feroce. Il magistrato impallidì. E passo a un duro interrogatorio.”

Nel racconto di D’Arrigo sono presenti i tanti personaggi umani che ‘Ndrja Cambrìa incontra: Cata, la più giovane delle femminote, dopo tre giorni e tre notti insieme il marito Damiano la lascia “che si potevano dire fratello e sorella”, quando viene portato via dai carabinieri per finire nell’esercito.

Caitanello Cambrìa, padre di ‘Ndrja, da bambino ebbe per compagna di giochi una fera. Soffre molto per la precoce morte della moglie, ancora giovane; la chiama nel sonno e conserva tutti i suoi vestiti.

Jacoma, o facciatagliata, è la suocera di Cata e la più influente tra le femminote che ‘Ndrja Cambrìa incontra a Praia a Mare.  Boccadopa, è il capo dei quattro soldati che si aggregano a ‘Ndria Cambrìa sulla strada del ritorno in Sicilia.

Portempedocle, Montalbanodelicona (!), Petraliasottana, i soldati del Regio Esercito sbandati dopo l’8 settembre, cercano di tornare a casa in Sicilia; sono conosciuti con il nome delle città di provenienza.

Il signor Monanin, guardiamarina veneto, imbarcato sulla nave da guerra dove ‘Ndrja è marinaio prima dell’8 settembre, non crede alla malvagità dei delfini e si scandalizza che i cariddoti li chiamino “fere”.

Ciccina Circè, femminota un po’ maga, abbandonata dal marito/amante partito per la guerra, traghetta ‘Ndrja Cambrìa dall’altra parte dello stretto con la propria barca. È in grado di attirare i delfini con il suono di una campanella.

L’Acitana è la madre di ‘Ndrja Cambrìa, morta di parto nel dare alla luce il secondo figlio; prima di sposare Caitanello abitava a Acireale. Aveva un rapporto molto affettuoso con il marito, che per lusingare chiamava Granvisire e ne era chiamata Masignora. È morta di parto mentre il marito e il figlio si trovavano per mare e venne sepolta prima del loro ritorno a casa.

Don Luigi Orioles, è tra i pellisquadre (pescatori con il volto indurito dal sole) più autorevoli; solo alla fine del romanzo, durante l’episodio dell’orcaferone arenato, ‘Ndrja si rende conto di avere raggiunto un’autorevolezza pari a quella del vecchio saggio.

Ferdinando Currò, vecchio pellisquadra, durante il maremoto del 28 dicembre 1908 salvò dalla furia delle onde molti dei pescatori che erano ancora bambini; da anziano passa il suo tempo a guardare il mare seduto fuori dalla porta di casa. Il sig. Cama, Delegato di Spiaggia di Cariddi, ha percorso tutti i mari su navi di lungo corso, possiede un grande libro illustrato scritto in inglese che mostra il nome di tutti gli abitatori dei mari.

Masino, 16 anni, fratello di latte di ‘Ndrja Cambrìa, lo accompagna a Messina per l’impresa della regata.

Il maltese Maniàci, arrivato in Sicilia a seguito dell’invasione al servizio degli inglesi, viene incaricato di organizzare un equipaggio italiano per una regata a tre nazionalità da tenersi a Messina.

Marosa Orioles, figlia di don Luigi Orioles, innamorata di ‘Ndrja Cambrìa fino da quando era bambina, come Penelope, in attesa del suo ritorno ricama pesci sul corredo di nozze.

Lillo Sanciolo, aiutante del Maltese, maneggione che tenta a tutti costi di reclutare ‘Ndrja Cambrìa per la regata angoloamericana, che frutterebbe mille lire l’uno anche a suo fratello e suo cognato.

Poi le Fere, creature marine ora benigne ora avverse, che popolano le profondità di un tratto di mare unico al mondo dove si sprigiona e si percepisce l’energia che nasce dall’incontro tra due mari profondamente diversi per tanti e misteriosi aspetti:

Manuncularais ha avuto un incontro-scontro con Caitanello Cambrìa poco prima del ritorno del figlio dalla guerra; il pescatore lo ha ferito con un temperino che porta sempre con sé.

Pelorus Jack fera trentenne che vive in uno stretto della Nuova Zelanda e la cui storia è raccontata ai pellisquadre dal signor Cama.

Mezzogiornara è la fera femmina che gioca con Caitanello bambino, uccisa a colpi di moschetto dai cacciatori con gran dolore del piccolo.

E, infine Orcaferone, il più grande abitatore del fondale marino che, a memoria dei pellisquadre, si è risvegliato dal suo sonno in fondo al mare solo quattro volte; porta sul fianco sinistro una ferita profonda e incancrenita che emana uno spaventoso odore di morte e putrefazione.

La trama del romanzo,  che non rivelo ai lettori per non privarli di un’ intensa esperienza letteraria, fa premio sull’ indubbia fatica dell’esplorazione di un mondo magico e proprio per questo dall’alto valore simbolico ed anagogico che trova le  più illustri fonti d’ispirazione nella Commedia dantesca e gli imprevedibili esiti nella letteratura contemporanea della “perdita dell’innocenza” da Alberto Moravia a Carlo Emilio Gadda e  Mario Missiroli,  da Jonathan Coe a Anthony Cartwright, da Ian Russell McEwan a Ohran Pamuk.

Il cammino di ‘Ndrja Cambrìa tra terra e mare  si rivelerà infatti un vero bildungsreise, un viaggio di formazione tra la fine di un’epoca, il fascismo e la guerra ma anche i miti e le leggende care e familiari e l’alba misteriosa, come si conviene ad ogni inizio, di un’altra era forse più temuta perché inedita ed indistinguibile, se non attraverso la nebbia dei simboli più arcaici, alla ricerca di una spiegazione che gli uomini esigono, talvolta invano, come razionale.

Il viaggio  dell’ eroe di D’Arrigo tra Scilla e Cariddi e il dubbio sugli infiniti modi ed espedienti  per attraversare quel confine liquido che contiene ma anche esclude  termina qui,  ma solo per iniziarne un altro più prosaico ed infinitamente più aderente ai tempi mediocri che viviamo e che vedono su quelle stesse acque un dibattito acceso e spesso privo di contenuti  suscitato scientemente in questi giorni da chi è  in cerca di elementi di distrazione da altre e più spinose questioni, fino al parossismo di immaginare un passaggio sottomarino anziché un ponte che celebri alla vista del mondo intero la fine dell’isolamento di una terra che ha tanto bisogno di respirare aria nuova e di offrire a quanti in futuro la visiteranno o sceglieranno di  investirvi,  il profumo delle antiche radici mediterranee, non sempre adeguatamente coltivate da chi vi è nato e cresciuto. Attenzione, dunque, ad osare indispettire le fere che abitano gli abissi o ad infilarsi tra le gambe di Colapesce che sulle spalle da laggiù regge l’Isola del “giorno prima” sperando, con una pazienza ormai esaurita, che giunga finalmente a compiersi l’inizio di “quello dopo” liberandolo dall’immane peso di registrare, come gli orologi rotti a bordo della Dafne, un tempo diverso da quello del mondo reale. Quelle creature potrebbero contrariarsi e scagliare contro chi le disturba torme inferocite di femminote dai cuori coraggiosi e dagli artigli adunchi.

Luigi Sanlorenzo

Palermo 1956. Di formazione filosofica, economica e scout ne ha declinato i valori nell’ambito delle analisi strategiche, delle dinamiche del cambiamento e dello sviluppo delle risorse umane, secondo gli indirizzi di Humanistic Management. Ha ricoperto incarichi di responsabilità e di consulenza presso istituti di credito e società multinazionali e ha rivestito cariche istituzionali negli anni ‘90 al Comune durante la Primavera di Palermo e sino al 2017, nell’Università degli Studi di Palermo, sino al 2015. Ha insegnato nei licei, nelle Università di Palermo, di Messina e di Macerata, presso la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, ISIDA e CERISDI di cui è stato consulente del presidente. In qualità di titolare di Studiofor Management Education ha progettato e diretto per oltre dieci anni altrettanti master professionalizzanti in Direzione del Personale. E’ stato presidente regionale Sicilia e consigliere nazionale dell’Associazione Italiana Formatori (AIF, MIlano) e presidente della Commissione RYLA del Distretto Rotary 2110 Sicilia e Malta. Pubblicista iscritto all’Ordine dei Giornalisti della Sicilia, collabora con riviste specialistiche della formazione e del management e con quotidiani online. Tra i più noti esperti italiani di leadership, è presidente dell’associazione senza scopo di lucro P.R.U.A. (Progetto Risorse Umane per l’Autonomia) fondata a Palermo nel 2001. Dal 2022 è Direttore della rivista Nuovi Approdi dove riporta anche i suoi articoli precedentemente pubblicati da LoSpessore.com

Luigi SanlorenzoSud

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