Nei giorni scorsi, l’Unione Europea ha confermato la decisione, più volte preannunciata, di voler eliminare la produzione di auto a combustione interna per ridurre le emissioni di CO2. Una decisione drastica presentata come fondamentale per la lotta ai cambiamenti climatici e per il New Green Deal cavallo di battaglia della Von der Leyern.
Una decisione criticata da molti e che non trova riscontro nelle politiche adottate da molti governi. A cominciare da quello italiano. Il 22 e 23 gennaio scorsi, la premier italiana Giorgia Meloni e l’amministratore delegato di ENI, Descalzi, sono volati in visita ufficiale in Algeria. Un incontro ritenuto di “fondamentale importanza” per rafforzare la collaborazione tra Italia e Africa nel settore dell’energia. Invece di promuovere la conversione verso fonti di energia verdi e rinnovabili, la premier e l’AD della maggiore azienda del settore nazionale hanno lavorato al ricorso ai combustibili fossili.
La missione è stata dichiarata strategica per ridurre la dipendenza dell’Italia dalle forniture di gas russo entro l’inverno 2023/2024. Dimenticando che in realtà si è solo spostata questa dipendenza da un paese straniero all’altro. Di “green” neanche a parlarne. La missione è stata presentata come il “nuovo piano Mattei” per l’Africa. Un piano imperniato sul gasdotto Transmed, che garantisce flussi di gas dall’Algeria verso l’Italia, e sul gasdotto che collega Gela con la Libia.
Una scelta, quella di chiamare in causa Mattei, che è apparsa a molti discutibile. Da grande imprenditore quale era, Mattei riuscì a convertire l’AGIP in ENI – Ente Nazionale Idrocarburi. Partendo da un’azienda in crisi, Mattei fece nascere una multinazionale del petrolio. In breve, divenne uno degli uomini più potenti d’Italia (anche grazie al “suo” giornale, Il Giorno). A chi gli chiedeva se ENI finanziasse i partiti, Mattei rispondeva che usava i partiti allo stesso modo di come usava i taxi, “salgo, pago la corsa, scendo”. Oggi, la situazione è completamente diversa. Ormai i danni causati dai combustibili fossili sono innegabili. Sull’ambiente e sulla salute delle persone. I cambiamenti climatici, definiti dalla Conferenza di Parigi del 2015 “il problema più importante per l’umanità”, causano decine di emergenze in tutto il pianeta e costano ogni anno miliardi di dollari. Spesso le misure per fronteggiare queste emergenze (non a caso poste al centro dell’attenzione dei colloqui della COP27, solo pochi mesi fa) appaiono insufficienti. E molte volte la causa è riconducibile ai ritardi nel cambiamento verso fonti di energia “verdi” legati alle pressioni esercitate dalle multinazionali del petrolio. Giganti multinazionali con bilanci multimiliardari che esercitano pressioni spaventose sulle decisioni dei governi dei paesi più “sviluppati”, proprio i maggiori responsabili dei cambiamenti climatici in atto. A dispetto di belle parole e spot pubblicitari a favore delle energie rinnovabili e di un mondo “verde”, molte di queste compagnie continuano a promuovere la produzione e l’utilizzo di combustibili fossili. Inutili finora gli ammonimenti degli scienziati. Anche le parole del Segretario Generale dell’ONU, Guterrez, sono rimaste inascoltate. E in tutto il pianeta continua la ricerca spasmodica di nuovi giacimenti. In mare e sulla terra. Dietro a devastanti campagne di greenwashing costate miliardi di dollari, le emissioni di gas a effetto serra continuano ad aumentare, la temperatura globale cresce mese dopo mese e i governi non sono in grado di arrestare il cammino verso una catastrofe climatica irreversibile.
In questo quadro generale, gli accordi del governo e di ENI con nazioni africane, definiti dalla presidente Meloni il “nuovo piano Mattei”, appaiono in controtendenza se confrontati con le promesse verdi della Presidente della Commissione Europea Von der Leyern. I programmi del governo dovrebbero mirare non a incrementare, ma a ridurre l’uso dei combustibili fossili. E a promuovere l’uso di energie rinnovabili. Un campo, questo che per ENI sembrerebbe non essere così importante come si vorrebbe far credere.
Nascondere questo stato di cose dietro nomi di personaggi storici (Mattei) o riempire i media di massicce campagne di greenwashing non cambierà il “nero” in “verde”. I numeri parlano chiaro. Numeri come quelli contenuti nel rapporto “Stepping up: Strengthening Europe’s corporate climate transition”, realizzato da CDP e dalla Oliver Wyman di Marsh McLennan (NYSE: MMC). “Le imprese europee non riescono a sviluppare piani di transizione climatica credibili per allinearsi all’obiettivo di mantenere l’innalzamento della temperatura media sotto gli 1,5° C, così da realizzare un futuro più ecosostenibile”. Il rapporto ha analizzato un campione di società che rappresentano in aggregato circa il 75% dei mercati azionari europei. “Circa la metà delle aziende (49%) dichiara di avere in atto un piano di transizione climatica per limitare il surriscaldamento a 1,5° C”, ma “La maggior parte dei piani manca di ambizione e trasparenza in aree chiave essenziali per dimostrare risultati concreti, come la governance, la pianificazione finanziaria e il coinvolgimento dell’intera catena del valore”. Molte aziende si nascondono: “Meno del 5% delle aziende europee considerate (56) ha un obiettivo di riduzione delle emissioni allineato a 1,5° C e ha fornito informazioni in relazione ad almeno due terzi degli indicatori chiave, dimostrando l’esistenza di un piano di transizione credibile (aziende “avanzate”)”. Delle 86 realtà italiane che hanno presentato un rapporto a CDP sui temi del clima, il 38% è classificata in “fase di sviluppo”. Nessuna come “avanzata”.
Da sottolineare anche il ruolo delle banche. Lo scarso interesse per l’ambiente delle aziende non riduce affatto (come era stato promesso) l’accesso ai finanziamenti: secondo i ricercatori, “Fino al 40% del debito bancario delle aziende analizzate (1.800 miliardi di euro) è erogato a favore di soggetti che non hanno obiettivi chiari o piani di transizione credibili”.
Eppure, basta sfogliare un giornale o guardare la TV per sentire parlare di aziende che si dichiarano “green”, climate friendly e all’avanguardia nella transizione energetica e climatica.
Un quadro desolante specie considerando la scadenza del prossimo anno: nel 2024 per le aziende dell’UE entrerà in vigore la CSRD la rendicontazione societaria di sostenibilità (Corporate Sustainability Reporting Directive) prevista dalla Direttiva (UE) 2022/2464 del Parlamento europeo. Una norma che estende gli obblighi di rendicontazione di sostenibilità a tutte le imprese di grandi dimensioni e alle imprese con valori mobiliari ammessi alla negoziazione in mercati regolamentati, comprese quindi le PMI (ad eccezion delle microimprese). Questa norma che dovrà essere recepita entro il 6 luglio 2024 (con scadenze temporali diverse in base agli esercizi).
Nel frattempo, a puntare il dito contro ENI è stata anche Greenpeace Italia con il rapporto “Cosa si nasconde dietro l’interesse di ENI per le foreste”, scritto in collaborazione con Recommon. Per l’associazione ambientalista “gli investimenti di ENI in progetti di conservazione delle foreste sono solo una operazione di greenwashing”. Il rapporto analizza l’uso da parte della più importante multinazionale italiana, dello strumento REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation in developing countries) per compensare le emissioni causate dalle sue attività estrattive, acquistando crediti di carbonio da progetti di conservazione delle foreste. “Negli ultimi anni – scrive Greenpeace – ENI ha annunciato di aver siglato accordi per progetti REDD+ in vari Paesi dell’America Latina e dell’Africa, tra cui il Luangwa Community Forests Project (LCFP), in Zambia. Secondo gli ambientalisti i progetti che avrebbero dovuto “compensare” almeno in parte le emissioni di CO2 evitando la deforestazione sono poco credibili essendo basati su un assunto impossibile da verificare, ovvero le riduzioni di emissioni se tali progetti non fossero stati realizzati. “Stime aleatorie, che si rivelano di importanza fondamentale per tenere in vita ancora per decenni il modello dell’estrazione dei combustibili fossili”. In compenso “acquistando crediti sul mercato del carbonio o investendo direttamente in presunti progetti di conservazione, aziende come ENI possono presentarsi come protettrici della biodiversità, nonostante le loro attività estrattive continuino a causare la distruzione degli ecosistemi su cui ricadono le loro concessioni, come per esempio nel Delta del Niger o in Mozambico”, ha dichiarato Alessandro Runci di ReCommon. Secondo Greenpeace Italia, ENI non avrebbe rinunciato neanche a parlare a una platea vasta, eterogenea e popolare come quella del Festival di Sanremo. “In cerca di palcoscenici da sfruttare che possano permettere di raggiungere facilmente milioni di italiane e italiani, per far passare le proprie comunicazioni su presunte svolte “green”, non sostenute però dai fatti”.
I fatti sono andare in Algeria al seguito del governo italiano a programmare enormi investimenti per l’estrazione e l’utilizzo di combustibili fossili per realizzare il “nuovo piano Mattei” in barba al New Green Deal.