Ieri, molti media hanno riempito le prime pagine con la notizia della liberazione dei quattro israeliani rapiti il 7 ottobre dello scorso anno e tenuti in ostaggio da Hamas.
Una buona notizia ma forse non completa. La prima cosa che sorprende (positivamente) è lo stato di salute dei quattro ostaggi liberati: Noa Argamani, Almog Meir Jan, Andrey Kozlov e Shlomi Ziv, questi i nomi dei quattro ostaggi salvati dall’esercito israeliano in un blitz condotto dall’Idf nelle aree di Nuseirat, Deir al-Balah e al-Zawaideh. Dalle immagini che hanno fatto il giro del mondo non sembra che i quattro fossero troppo provati da oltre sei mesi di prigionia. Segno questo che la loro detenzione è stata meno dura di quello che il governo israeliano sta sbandierando da mesi e che avrebbe giustificato il massacro di decine di migliaia di civili palestinesi. Il portavoce delle forze armate israeliane, il contrammiraglio Daniel Hagari, ha affermato che l’operazione di salvataggio degli ostaggi è stata “audace” e che i quattro sono stati liberati dalle forze speciali “sotto fuoco intenso”. “Durante l’operazione le nostre forze erano sotto minaccia e queste minacce sono state sventate con attacchi da terra, dall’aria e dal mare”, ha aggiunto. Eppure, almeno a quanto si vede dalle immagini trasmesse i quattro ostaggi non avrebbero riportato nemmeno un graffio.
Diversa la sorte toccata ad altri tre ostaggi uno dei quali con passaporto statunitense. Su di loro nemmeno una parola: non sono stati comunicati nemmeno i nomi. Cosa strana visto che, secondo i media ufficiali, almeno uno di loro aveva passaporto americano. Di lui il presidente Biden non ha detto nulla durante la conferenza stampa a Parigi, nella quale ha espresso soddisfazione per la liberazione dei quattro ostaggi. “Non smetteremo di lavorare finché tutti gli ostaggi non saranno tornati a casa”, ha dichiarato l’inquilino della Casa Bianca dopo essersi congratulato, insieme al suo omologo francese, Emmanuel Macron, per la positiva conclusione dell’operazione.
Cosa sia successo realmente, probabilmente non lo sapremo mai. Secondo un testimone oculare palestinese, le forze israeliane si sarebbero intrufolate nel campo profughi di Al-Nuseirat a bordo di un camion di aiuti umanitari proveniente dal molo americano. Di come siano davvero morti i tre ostaggi nessuno ha detto nulla. Così come nessuno ha fornito dettagli circa l’agente israeliano dell’antiterrorismo rimasto ucciso (o secondo altre fonti ferito gravemente). Una fonte USA ha riferito alla CNN che all’operazione avrebbe partecipato anche un gruppo americano.
Tra gli aspetti poco chiari anche le conseguenze tra i civili palestinesi. Se è vero che l’attacco è stato così ben organizzato e “chirurgico” come si spiega il numero dei morti tra i civili? Secondo fonti ufficiali i morti a seguito dell’attacco israeliano sarebbero stati almeno 274. E 698 le persone ferite durante l’attacco. Eppure, secondo gli accordi internazionali di Diritto Internazionale Umanitario attacco e difesa dovrebbero essere commisurati. Ma sono anni che questi accordi non valgono più niente: ogni volta che si combatte una guerra, ciascuna delle parti fa quello che vuole nella speranza di vincere e di poter scrivere la storia a proprio piacimento.
Tanto trovare una giustificazione non è difficile. “Israele non si arrende al terrorismo”, è la dichiarazione del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, gongolante dopo la liberazione degli 4 ostaggi israeliani. Le forze di sicurezza “hanno dimostrato che Israele non si arrende al terrorismo e agisce con una creatività e un coraggio che non conosce limiti per riportare a casa i nostri ostaggi”, ha aggiunto Netanyahu in un comunicato. Il ministro del Gabinetto di Guerra Benny Gantz ha cancellato il suo discorso serale in cui si attendeva che avrebbe ritirato l’appoggio del suo partito al governo di unità nazionale. Il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha dichiarato che “la resistenza continuerà dopo i combattimenti mortali in un campo profughi del centro di Gaza dove Israele aveva organizzato un’operazione di salvataggio di ostaggi”. “Il nostro popolo non si arrenderà e la resistenza continuerà a difendere i nostri diritti di fronte a questo nemico criminale”, ha dichiarato Haniyeh.
Diversi, come si diceva, i punti di riflessione. Prima di tutto coincidenza con la decisione delle Nazioni Unite di intervenire su Israele per le violenze sui bambini. E poi la violenza dell’attacco. Una violenza che ha causato centinaia di morti, tra cui tre ostaggi (pare non uccisi dai rapitori ma dal fuoco “amico”). Anche sul fronte della politica interna non mancano le coincidenze. Dopo l’accaduto Gantz ha rimandato il discorso nel quale avrebbe dovuto annunciare le proprie dimissioni da ministro del Gabinetto di Guerra israeliano, e chiedere le dimissioni del premier e nuove elezioni per ottobre. Facendolo avrebbe lasciato un posto vacante al tavolo operativo. Un posto che il partito dell’estrema destra si era già detto disponibile a ricoprire.
Tra i dubbi anche la partecipazione attiva degli USA in questa missione. Partecipare a queste missioni non è lo stesso che mandare armi: significa un coinvolgimento diretto nelle azioni di guerra. Altro aspetto da chiarire è il comportamento del presidente Biden che ha lodato l’azione degli israeliani senza dedicare una parola al fatto che un suo connazionale è stato ucciso proprio durante questa missione. Ma il dubbio maggiore è un altro: cosa accadrà dopo questo attacco? Hamas libererà volontariamente gli ostaggi ancora nelle sue mani? O siederà al tavolo delle trattative? Ma soprattutto a sorprendere è il silenzio del governo palestinese. Quello che alcuni governi occidentali hanno appena riconosciuto come legittimo, ma che non ha mai fatto sentire la propria voce in Occidente.