Alberto Arbasino è stato una delle figure più sfaccettate e libere del secondo Novecento italiano: scrittore, giornalista, saggista, critico e uomo politico, ha incarnato un’idea di intellettuale mobile e ironicamente intransigente. Protagonista del Gruppo 63, ha attraversato linguaggi e generi – dal romanzo al pamphlet, dalla televisione alla camera parlamentare – sempre armato di uno sguardo tagliente e sofisticato. Il suo capolavoro, Fratelli d’Italia, è un’opera mutante, in perenne riscrittura, che riflette l’evoluzione stessa della sua poetica. Più che narratore tradizionale, Arbasino ha usato la scrittura come specchio deformante e critico della società italiana, anticipando derive culturali, mediatiche e politiche. In questo articolo si ripercorre la sua parabola biografica e intellettuale, riconoscendolo come una delle voci più lucide e difficili da incasellare della nostra storia culturale recente.
Alberto Arbasino è stato tutto, tranne che comodo. Scrittore, polemista, cronista acuto del costume nazionale e della sua ipocrisia, è stato uno degli ultimi intellettuali italiani capaci di tenere insieme, con coerenza, l’eccentricità espressiva e una ferrea disciplina intellettuale. Amava definirsi un “espressionista”, ma era anche un vero kulturkritiker, con una sensibilità mitteleuropea che lo rendeva alieno alla retorica mediterranea dell’identità e del sole. Nato a Voghera nel 1930, Arbasino seppe da subito misurarsi con l’Italia profonda della provincia e delle sue strette convenzioni sociali, terreno che diventerà uno dei soggetti ricorrenti delle sue prime opere. Dopo gli studi in Medicina e Giurisprudenza, e un’esperienza universitaria che lo portò da Pavia a Roma, entrò nel mondo della letteratura da outsider colto: Italo Calvino fu il primo a curare i suoi testi, riconoscendone l’originalità. Eppure, non bastava essere brillante: per Arbasino, bisognava riscriversi, riscrivere, smentirsi, aggiornarsi. È proprio nella pratica della riscrittura che Arbasino ha lasciato uno dei suoi segni più radicali. Fratelli d’Italia, pubblicato per la prima volta nel 1963, è un oggetto narrativo mutante, un libro che conosce due riscritture sostanziali (1976, 1993) e che si trasforma nel tempo come una grande composizione jazz: ogni nuova edizione è una “alternate take”, un nuovo sguardo sul medesimo viaggio. Il romanzo diventa così un organismo vivo, espanso, in cui la realtà italiana viene sezionata con chirurgica irriverenza. Ironico e strutturalmente debordante, Fratelli d’Italia non è un romanzo “da leggere dritto”, ma da attraversare in modo frammentario, laterale, con spirito “random style”, come insegna anche la lezione proustiana.
La narrazione di Arbasino, infatti, non cerca l’identificazione, ma la distanza. Non si lascia avvolgere dai miti culturali, li decostruisce. Così anche Napoli, città da lui frequentata con spirito critico e mai indulgente, si trasforma in uno scenario grottesco, carnevalesco, “cannibalizzato” dal turismo culturale, eppure affascinante nella sua irrisolta contraddizione. Nulla sfugge al suo sguardo: né la mediocrità dei salotti, né le false promesse della cultura alta. E il Seicento italiano – da lui osservato con la perizia di uno storico dell’arte – viene riletto non con compiacimento barocco, ma come segno di un’Italia schizofrenica, tra Poussin e i caravaggeschi minori.
Arbasino non si è mai accontentato di essere scrittore. Il suo impegno critico si è manifestato nella collaborazione con i principali quotidiani italiani (Il Mondo, Corriere della Sera, La Repubblica), in esperimenti televisivi come Match (1977) – in cui fece dialogare Moravia, Pasolini e Fallaci – e persino nell’arena politica, dove fu deputato tra il 1983 e il 1987 come indipendente nel Partito Repubblicano. Ma anche qui, più che partecipare, sembrava voler osservare da vicino, per raccontare meglio. Le sue opere saggistiche – Un paese senza, Fantasma italiani, Paesaggi italiani con zombi – sono forse i suoi scritti più politici, perché vanno al cuore di ciò che non funziona nel carattere nazionale: il familismo amorale, la codardia diffusa, la pervasività del conformismo. Arbasino non cercava l’effetto, ma la diagnosi. E per questo risultava spesso ruvido, impopolare. Lo fu, ad esempio, nel giudicare Moro con distacco glaciale, o nel prevedere – con un testo pubblicato su Repubblica il 14 luglio 2001 – il tragico epilogo del G8 di Genova, una settimana prima della morte di Carlo Giuliani.
Forse è per tutto questo che Arbasino oggi risulta difficilmente imitabile. Non solo per lo stile – un tessuto verbale denso, colto, disseminato di citazioni, battute e riferimenti colti – ma per l’indipendenza di pensiero, per la capacità di “essere ovunque e altrove”. Ha viaggiato moltissimo, ma è sempre rimasto ancorato alla sua identità più profonda: quella di un osservatore lucido, che rifiuta la retorica e coltiva l’intelligenza del dubbio.
Nel 2011, abbandonando polemicamente la cerimonia del Premio Boccaccio, disse: «Questo premio non lo voglio, tenetevelo». Una frase che, in bocca a chiunque altro, sarebbe suonata come un capriccio, ma che nel suo caso era solo coerenza. Per Arbasino, non esisteva nulla che giustificasse la menzogna dell’autocompiacimento. Arbasino è morto nel marzo del 2020, proprio nei giorni in cui l’Italia entrava nel primo lockdown pandemico. Una coincidenza amara: il più lucido osservatore del “teatrino italiano” ci ha lasciati proprio mentre il paese affrontava uno dei suoi momenti più surreali. Eppure la sua eredità resta intatta. Non nei premi ricevuti (Campiello, Chiara, Scanno), ma nella forza con cui ha saputo raccontare ciò che gli altri evitavano: le convenzioni, le bassezze, la vanità culturale, ma anche il piacere del bello, dell’intelligenza, dell’ironia.
Alberto Arbasino non è stato uno scrittore del boom economico, come qualcuno vorrebbe relegarlo. È stato piuttosto un narratore del “boom delle finzioni”, della loro esplosione e del loro smascheramento. Un artista che ha saputo usare il romanzo come una macchina per pensare, per disfare e rifare l’Italia sulla pagina. Ecco perché va letto ancora oggi. Non per nostalgia, ma per necessità. Perché aveva capito prima di molti che, per raccontare un paese come il nostro, serve uno sguardo che attraversi tutto – la cronaca, l’arte, la politica, il trash – senza mai perdere l’ironia. Uno sguardo come il suo, irripetibile.