
[fonte foto eurobull.it – foto di Websi da Pixabay]
Ormai da più di tre anni, dopo un periodo di sana stabilità, i Balcani, in particolare Bosnia e Serbia, sono tornati a quella profonda instabilità intrinseca che ormai li contraddistingue da più di cento anni. A tutto ciò si aggiunga il loro progressivo riavvicinamento alla Russia e l’atteggiamento di voler avere un piede su due staffe, Russia e U.E.
La Bosnia-Erzegovina vive la sua crisi più profonda dai tempi della guerra. Il motore della nuova instabilità è la condanna di Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska (RS), per aver ignorato le decisioni dell’Alto Rappresentante, figura centrale dell’architettura post-Dayton. La risposta della RS, che ha approvato leggi per escludere le istituzioni statali dal proprio territorio, segna un passo potenzialmente secessionista. La Bosnia, creata su un compromesso etnico, mostra oggi tutte le crepe di un progetto mai veramente integrato. La Corte statale ha emesso un mandato d’arresto per Dodik, ma la sua popolarità resta intatta. Il rischio non è solo quello di uno stallo istituzionale: la tensione potrebbe sfociare in una destabilizzazione che investirebbe tutta la regione.

[Presidente della Republika Srpska Milorad Dodik]
Gli Accordi di Dayton del 1995 hanno imposto la pace, ma anche un sistema di governo paralizzante. Divisa in due entità — Federazione croato-musulmana e Republika Srpska — la Bosnia è una repubblica federale dove le identità etniche prevalgono sulla coesione nazionale. L’Alto Rappresentante, nominato dalla comunità internazionale, ha il potere di imporre leggi e destituire funzionari. Una figura controversa, oggi apertamente sfidata da Dodik. Il boicottaggio delle istituzioni centrali da parte della RS mette in discussione l’intera impalcatura costituzionale del Paese. La fiducia tra le comunità etniche è ai minimi storici e l’efficacia dello Stato centrale è ridotta al minimo. La domanda non è più se la Bosnia possa entrare in Europa, ma se possa continuare ad esistere come entità statale unitaria.
La figura di Dodik è al centro di un più ampio disegno geopolitico. Forte di un’alleanza consolidata con Mosca e sostenuto politicamente da Belgrado, il leader serbo-bosniaco appare come un emissario strategico di Putin nei Balcani. In un’Europa divisa dalla guerra in Ucraina, la Russia punta a mantenere instabile il confine balcanico per indebolire l’UE. La Serbia, ufficialmente in rotta verso Bruxelles, resta però ambigua: Aleksandar Vučić continua a giocare su due tavoli, coltivando legami con la Russia e la Cina, mentre trattiene le relazioni con l’Occidente. Il disconoscimento dell’Alto Rappresentante da parte di Dodik è condiviso da Mosca, che spera di trasformare la crisi bosniaca in un precedente contro l’ingerenza internazionale. I Balcani diventano così il teatro di una nuova Guerra Fredda silenziosa.
Il viaggio del leader dei serbo-bosniaci Milorad Dodik a Mosca lo scorso 1° aprile ha riacceso i riflettori sull’influenza russa nei Balcani. L’incontro con Vladimir Putin, il settimo dall’inizio della guerra in Ucraina, si inserisce in una strategia consolidata da parte di Mosca: sostenere attori secessionisti e anti-occidentali per rallentare l’integrazione euroatlantica della regione. Eppure, l’effettiva rilevanza della Russia nei Balcani va ridimensionata. Sebbene la retorica panslava e i legami culturali vengano spesso enfatizzati, la presenza russa sul campo è oggi più simbolica che strutturale. La Serbia dipende ancora energeticamente da Mosca, ma il gas – benché importato quasi interamente dalla Russia – rappresenta solo una quota marginale del mix energetico nazionale. Dodik, oggi condannato dalla giustizia bosniaca e in conflitto aperto con l’Alto Rappresentante Christian Schmidt, ha bisogno del sostegno russo soprattutto sul piano diplomatico. Mosca, forte del suo seggio al Consiglio di Sicurezza ONU, si oppone alla legittimità della figura di Schmidt, sostenendo una narrazione che delegittima le istituzioni nate dagli Accordi di Dayton. Tuttavia, mentre Dodik rafforza la sua posizione attraverso il legame con Putin, la Russia sfrutta queste tensioni senza impegnare risorse significative. Il vero vantaggio per Mosca è politico: ogni crisi allontana i Balcani dall’UE e rafforza l’immagine di una Russia “protettore” dei serbi. Ma la storia dimostra che questa presunta fratellanza è selettiva e spesso contraddittoria. Oggi, più che una minaccia attiva, Mosca rappresenta un ostacolo passivo, alimentato da leader locali in cerca di legittimità e protezione internazionale. Il vero nodo, allora, è interno ai Balcani: serve una leadership europea credibile e presente, capace di riempire quel vuoto che il Cremlino continua a sfruttare.

[fonte immagine dw.com]
Nel cuore dei Balcani, la Serbia vive una delle sue fasi politiche più tese e imprevedibili degli ultimi anni. A innescare la scintilla, il crollo di una pensilina ferroviaria a Novi Sad che ha causato la morte di 15 persone. Ma ciò che sembrava un tragico incidente si è rapidamente trasformato in un catalizzatore per il malcontento popolare. Dal 15 marzo 2025, più di 100.000 persone sono scese in piazza a Belgrado, inaugurando un movimento di protesta che ha coinvolto studenti, insegnanti, lavoratori e cittadini comuni, stanchi di corruzione, repressione e manipolazione mediatica. Le accuse rivolte a Vučić sono pesanti: controllo dei media, limitazioni alla libertà di espressione, legami opachi con l’élite economica e, soprattutto, un crescente autoritarismo che ricorda più un regime che una democrazia. Informer TV, emittente filogovernativa, è diventata simbolo della propaganda di Stato. La risposta del presidente è stata una miscela di repressione e retorica nazionalista, culminata nella grande manifestazione filogovernativa del 12 aprile a Belgrado, promossa come “il più grande raduno della storia della Serbia”. L’evento, pur ben organizzato e sostenuto da ingenti risorse logistiche, ha mostrato una base stanca, priva di entusiasmo genuino, spesso trascinata da pressioni economiche e politiche più che da reale convinzione. In questo clima di tensione interna, la questione bosniaca si ripropone come leva geopolitica. Vučić ha rispolverato la retorica del “protettore dei serbi” in Bosnia, cercando di risvegliare l’orgoglio nazionale per distogliere l’attenzione dalle crisi interne. Ma questa strategia rischia di incendiare ulteriormente i rapporti con Sarajevo e Bruxelles, minando le già fragili prospettive europee di Belgrado.
Le proteste pacifiche, come quella a Novi Pazar, indicano una Serbia diversa: pluralista, solidale, capace di riscoprirsi comunità oltre le divisioni etniche e politiche. Un segnale che il vero cambiamento non passa per i grandi palchi o le bandiere sventolate per propaganda, ma per le strade percorse da chi chiede libertà, giustizia e democrazia. La Serbia è a un bivio: continuare nel solco dell’autoritarismo o imboccare la via – difficile ma possibile – della riforma democratica. La piazza ha parlato. Ora tocca alle istituzioni decidere se ascoltare o reprimere.
A quasi trent’anni dagli Accordi di Dayton, la Bosnia resta prigioniera del suo stesso compromesso. La Serbia, sospesa tra autocrazia e UE, alimenta l’incertezza. L’intervento internazionale resta debole: l’UE è paralizzata dalle sue crisi interne, mentre gli Stati Uniti sembrano disinteressati ai Balcani. Dodik spera in un allineamento russo-statunitense che lo legittimi, mentre Vučić manovra per guadagnare tempo. Le proteste popolari in Serbia — soprattutto quella storica di Novi Pazar — indicano una società civile viva e stanca delle divisioni etniche. Ma la retorica del nemico interno e della difesa nazionale continua a dominare il discorso politico. Il futuro della regione resta incerto: senza una riforma istituzionale profonda in Bosnia e un cambio di passo democratico in Serbia, i Balcani rischiano di restare in un limbo permanente, tra pace apparente e conflitto latente.