L’attacco aereo israeliano contro le infrastrutture militari e nucleari iraniane nel giugno 2025 ha innescato una delle crisi geopolitiche più complesse del XXI secolo. In risposta, Teheran potrebbe chiudere temporaneamente lo Stretto di Hormuz, bloccando un passaggio marittimo da cui transita un terzo del greggio mondiale. Tuttavia, la vera svolta non è solo energetica: la concomitante inaugurazione della ferrovia Pechino-Tehran, parte della Nuova Via della Seta, rivela come il conflitto tra Iran e Israele sia diventato un laboratorio per una nuova guerra ibrida, in cui infrastrutture, narrativa e diplomazia contano quanto le bombe. Questo articolo analizza gli attori coinvolti — Iran, Israele, Stati Uniti, Cina e Russia — evidenziando come ciascuno stia trasformando la crisi in uno strumento di ridefinizione strategica. Tra analisi strutturale, scenari previsionali e trasformazioni energetiche globali, emerge un paradosso: nessuno ha interesse a vincere questa guerra, ma nessuno può permettersi di perderla. Lo Stretto di Hormuz, ancora una volta, è il termometro dell’instabilità sistemica del nostro tempo.
Nel cuore del Golfo Persico, tra Iran e Oman, si estende un tratto d’acqua lungo 39 chilometri che oggi tiene in ostaggio l’intera economia mondiale. La chiusura dello Stretto di Hormuz, ufficialmente motivata da esigenze di sicurezza nazionale, è in realtà un atto geopolitico ad altissima tensione che rievoca per intensità e impatto il blocco del Canale di Suez del 1956. Oltre il 30% del petrolio marittimo globale — circa 18,5 milioni di barili al giorno — transita da qui. La sua chiusura, avvenuta in risposta all’operazione “Rising Lion” dell’aviazione israeliana, ha già spinto il prezzo del greggio oltre i 200 dollari al barile.
Non si tratta solo di shock petrolifero. Le conseguenze sono sistemiche: supply chain in tilt, compagnie aeree che riducono i voli, settori industriali fermi e instabilità sociale crescente in Asia, Africa e persino in Europa. Hormuz è diventato l’epicentro visibile di una guerra invisibile tra modelli di potere, logistica e sopravvivenza.
Tra il 13 e il 20 giugno 2025, Israele ha colpito oltre 40 obiettivi militari e nucleari iraniani. I raid hanno causato almeno 639 morti civili, secondo fonti locali. Nessun mandato ONU. Nessuna dichiarazione di guerra. Solo un’azione unilaterale che, agli occhi di Teheran, ha legittimato il ricorso alla strategia massima: la chiusura di Hormuz, fino ad allora minacciata ma mai attuata.
L’operazione israeliana, pur riducendo temporaneamente alcune capacità strategiche iraniane, ha lasciato intatte le possibilità di rappresaglia: milizie filo-iraniane come Hezbollah, Houthi e gruppi sciiti in Iraq sono ora pronte a espandere il conflitto in tutta la regione. Inoltre, l’Iran ha guadagnato un elemento narrativo centrale: la legittimazione del proprio ruolo di vittima di un’aggressione internazionale, utile per consolidare l’opinione pubblica interna e mobilitare alleati esterni.
Stati Uniti:
Washington si trova in una posizione schizofrenica. Da un lato, deve garantire la sicurezza di Israele, suo storico alleato; dall’altro, non può permettersi un impegno diretto mentre la crisi con la Cina per Taiwan è in pieno svolgimento. La Quinta Flotta è schierata, ma è il tempo, non il fuoco, il vero strumento di pressione americano. Gli USA puntano a logorare Teheran e raffreddare Tel Aviv, senza bruciarsi.
Cina:
L’arrivo del primo treno merci dalla Cina all’hub iraniano di Aprin il 25 maggio 2025 ha rappresentato un punto di svolta strategico. È il segnale che l’Iran è ormai parte integrante della Belt and Road Initiative. La chiusura di Hormuz mette a rischio questa rotta terrestre, ma offre a Pechino una nuova chance diplomatica: posizionarsi come mediatore silenzioso, salvaguardare i propri interessi senza esporsi, mentre cerca forniture alternative in Angola, Russia e Asia Centrale.
Russia:
Mosca è, paradossalmente, l’unica potenza a trarre vantaggio immediato dal caos. Il rincaro dell’energia le permette di vendere petrolio e gas a prezzo pieno, aggirando le sanzioni. Inoltre, la crisi distrae gli USA dal fronte ucraino. Ma Putin sa che un Medio Oriente fuori controllo potrebbe destabilizzare anche il Caucaso e l’Asia centrale: la Russia osserva, manipola, ma non interviene.
La crisi attuale rivela la crisi più profonda: quella del multilateralismo. L’ONU è paralizzata. Il G20 è inefficace. Le riserve strategiche sono gestite in ordine sparso. Solo l’Agenzia Internazionale per l’Energia tenta di tenere insieme i pezzi, ma senza autorità politica. La governance globale si è rivelata impotente davanti a un conflitto regionale che, in meno di una settimana, ha modificato equilibri energetici, rotte logistiche e assi di potere. La regola aurea della geopolitica attuale è semplice: ognuno per sé.
La crisi di Hormuz ha agito come catalizzatore di una transizione energetica che, fino a pochi mesi fa, arrancava tra costi e inerzia politica. Oggi, perfino i governi più riluttanti investono in eolico offshore, idrogeno verde e solare su larga scala. L’Africa, con il suo potenziale energetico inespresso, torna centrale nei giochi geopolitici.
Questa trasformazione, sebbene nata dall’urgenza, apre scenari nuovi: meno dipendenza da chokepoint marittimi, maggiore diversificazione, e un possibile riequilibrio tra produttori e consumatori.
In apparenza, la crisi israelo-iraniana è una guerra tra due nemici storici. In realtà, è il teatro perfetto per la rinegoziazione di potere tra le superpotenze. Nessuno vuole davvero la vittoria dell’altro. Ma ognuno ha bisogno che il conflitto continui — contenuto, gestibile, sfruttabile.
La chiusura dello Stretto di Hormuz, quindi, è molto più di un incidente militare: è una mossa strategica per costringere il mondo a prendere atto che il vecchio ordine — basato su supremazia navale, egemonia energetica e deterrenza unilaterale — è ormai inadeguato. Serve un nuovo patto geopolitico, fondato su responsabilità condivise, non su logiche di dominio. Finché ciò non avverrà, la storia continuerà a ripetersi. Solo che, ogni volta, il costo sarà più alto.