Viviamo nell’epoca della connessione perpetua, della digitalizzazione onnipresente, dell’intelligenza artificiale che promette di pensare per noi. Eppure, a ben guardare, il progresso tecnologico sembra spesso avanzare più veloce della nostra capacità di comprenderne gli effetti. Anzi, in molti casi, più che risolvere problemi, la tecnologia sembra crearne di nuovi.
Ogni innovazione viene venduta come una semplificazione. Ma semplificare per chi? Se da una parte le aziende automatizzano processi e risparmiano costi, dall’altra migliaia di lavoratori si ritrovano “superati” da macchine che non dormono, non scioperano, non sbagliano (quasi) mai. Il mito dell’efficienza rischia di oscurare il valore umano del lavoro, svuotandolo di senso e di dignità.
I social media ci mostrano solo ciò che “ci piace”, le piattaforme di streaming suggeriscono ciò che “dovremmo guardare”, i motori di ricerca filtrano ciò che “è rilevante”. Ma chi scrive queste regole? Gli algoritmi – strutture invisibili, opache, spesso non regolamentate – che selezionano, premiano, escludono. La libertà di scelta diventa così un’illusione confortevole, dietro cui si cela un controllo pervasivo.
Non si tratta solo di scrollare TikTok per ore. Le notifiche, le app, la gamification della vita quotidiana ci tengono legati a dispositivi che promettono connessione ma, paradossalmente, alimentano isolamento. I dati sulla salute mentale, in particolare tra i più giovani, parlano chiaro: più tecnologia non significa necessariamente più benessere.
L’IA non è più fantascienza: scrive testi, genera immagini, prende decisioni. Ma quanto ne comprendiamo davvero? E soprattutto: chi la controlla? Mentre le Big Tech si sfidano a colpi di innovazioni sempre più “intelligenti”, pochi sembrano interrogarsi sulle implicazioni etiche, culturali e sociali di una delega tanto ampia a sistemi che apprendono… ma non pensano.
In questo scenario, serve più che mai una formazione digitale che non si limiti all’uso degli strumenti, ma che sviluppi uno sguardo critico. Serve coltivare la capacità di porre domande scomode, di distinguere tra innovazione reale e marketing, tra progresso e profitto. Perché la tecnologia, in sé, non è né buona né cattiva: dipende sempre da come – e da chi – la utilizza.