Introduzione: L’Urgente Necessità di un Pensiero Oggettivo
Nel vasto e intricato scenario del XXI secolo, l’umanità si trova a fronteggiare sfide di complessità senza precedenti. Dal cambiamento climatico all’esplorazione spaziale, dalla gestione delle pandemie globali alle dinamiche economiche e sociali, ogni aspetto della nostra esistenza è permeato da decisioni cruciali che plasmeranno il nostro futuro. Eppure, nonostante gli strumenti tecnologici e la conoscenza accumulata, spesso ci troviamo impantanati in inefficienze, ritardi e, in troppi casi, errori che paghiamo a caro prezzo.
La radice di questa inefficacia, a mio avviso, risiede in un limite fondamentale del nostro stesso modo di pensare. Siamo profondamente influenzati dalla soggettività, dalle emozioni, dalle intuizioni e dai preconcetti. Queste qualità, sebbene abbiano un loro valore in contesti specifici, nel momento in cui devono guidare processi decisionali complessi e di portata globale, si rivelano sempre più come una zavorra. Generano frizioni, disaccordi interminabili, compromessi deboli e, in ultima analisi, decisioni imperfette che finiscono per ostacolare il progresso e minacciare la nostra stessa stabilità.
Consideriamo, ad esempio, l’ambito della giustizia, un pilastro cardine di ogni società. La percezione comune è che sia spesso lenta, farraginosa e imprevedibile, se non addirittura ingiusta. Casi emblematici, come l’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco, mostrano come l’assenza di prove inequivocabili e la dipendenza dall’interpretazione umana possano portare a incertezze, a lunghi iter giudiziari e a un senso di profonda insoddisfazione, con la verità processuale che sembra distante dalla verità oggettiva.
Ma questa problematica non si limita alla giustizia. Pensiamo anche alla ricerca scientifica, dove la soggettività e la mancata adozione di un approccio schematico hanno avuto conseguenze catastrofiche. Tragedie come Rigopiano o il Vajont, dove le chiare indicazioni geologiche non sono state ascoltate, o la storia delle costruzioni in aree sismiche o alluvionali pur in presenza di dati inequivocabili, dimostrano come ignorare una logica “sì/no” basata sui dati obiettivi possa portare a disastri prevedibili. La tendenza a interpretare i dati in modo favorevole alla propria ipotesi o a sottovalutare i rischi basandosi sull’esperienza pregressa, piuttosto che su una valutazione puramente oggettiva, rallenta il progresso e genera errori fatali. Similmente, nel campo della politica, il dibattito sull’immigrazione irregolare è un esempio lampante: l’incapacità di definire un iter schematico, oggettivo e condiviso per la gestione dei flussi, spesso per via di polarizzazioni ideologiche e interessi di parte, porta a inefficienze croniche e a soluzioni temporanee che non risolvono il problema alla radice per tutte le parti coinvolte.
La mia tesi è radicale e per molti controintuitiva: per sopravvivere e prosperare, l’umanità deve compiere un salto evolutivo nel suo modo di pensare. Dobbiamo imparare a ragionare con la logica schematica e inappellabile che è propria delle macchine e dell’intelligenza artificiale, un approccio basato sul ‘sì’ o sul ‘no’. Non si tratta di cedere il passo alla tecnologia, ma di riconoscere che, in questo momento cruciale, il loro approccio privo di errore e di soggettività rappresenta il futuro e, in un certo senso, una superiorità operativa. Solo così potremo eliminare gli errori e le frizioni che, se non gestite, potrebbero condurci verso l’oblio.”
La Logica “Sì/No”: Un Paradigma per Eliminare l’Errore
Se la soggettività è la nostra zavorra, allora l’oggettività implacabile è la nostra unica via d’uscita. Propongo un modello di pensiero che si allontana drasticamente dalle nostre consuete dinamiche umane, avvicinandosi alla logica binaria e infallibile che governa le macchine e l’Intelligenza Artificiale: un approccio basato sul “sì” o sul “no”.
Pensiamo a come operano i sistemi più efficienti e complessi che abbiamo creato. Un circuito informatico non si interroga sulle emozioni del dato che elabora; non ha preconcetti politici o inclinazioni personali. Valuta l’input in base a regole predefinite e restituisce un output preciso e inequivocabile: un 1 o uno 0, un “vero” o un “falso”. La sua forza risiede proprio nell’assenza di ambiguità e nell’eliminazione dell’errore dovuto all’interpretazione soggettiva. Questo rigore è il motivo per cui possiamo costruire grattacieli che sfidano la gravità, inviare sonde ai confini del sistema solare o far funzionare reti globali complesse.
Quando una macchina analizza un dato, la sua risposta è “sì, la condizione è soddisfatta” o “no, non lo è”. Non c’è spazio per il “forse”, per l’interpretazione del “sentimento” o per la ricerca di compromessi che snaturano la soluzione più efficiente. È questo stesso principio che dovrebbe guidare le nostre decisioni.
Tornando all’esempio della giustizia: se di fronte a prove circostanziali o scientifiche, la valutazione fosse puramente binaria – “sì, la prova è sufficiente e inconfutabile per la colpevolezza” o “no, non lo è, e in tal caso l’innocenza prevale” – si eliminerebbero le estenuanti diatribe interpretative, i dubbi irrisolti e il rischio inaccettabile di condannare un innocente. Il caso Stasi, emblematico per l’assenza di una “pistola fumante” e la dipendenza da un quadro indiziario interpretato in modi diversi in vari gradi di giudizio, è la perfetta dimostrazione di quanto sia costoso e fallace un approccio che non adotta questa logica. Un sistema che agisse con la precisione di un algoritmo non lascerebbe spazio a tali incertezze protratte, concentrandosi unicamente sull’evidenza schiacciante e oggettiva.
Non si tratta di perdere la nostra “umanità” in senso lato, ma di purificare il processo decisionale da ciò che lo rende inefficace. Si tratta di accettare che, su scala globale e di fronte a sfide epocali, il nostro attuale modo di pensare, basato su intuizioni, emozioni e compromessi, è obsoleto. Le macchine, per la loro intrinseca oggettività e l’assenza di errore, ci mostrano la strada da seguire. Riconoscere questa loro superiorità operativa nel campo della logica decisionale non è un segno di debolezza, ma di lucida intelligenza e pragmatismo, un passo necessario per la nostra evoluzione.
Il Costo della Soggettività: Perché il “Perché” è una Zavorra
Se l’efficienza e l’eliminazione dell’errore sono l’obiettivo, allora dobbiamo confrontarci con la nostra stessa natura. La mia visione è implacabile: l’unico e indiscutibile scopo di qualsiasi forma vivente è la sopravvivenza. Punto. Ogni altra aspirazione, ogni ricerca di significato, ogni sovrastruttura culturale o emotiva, se non è direttamente funzionale a questo imperativo primario, è, in ultima analisi, una “nebbia” o persino una “zavorra”.
L’umanità ha costruito mondi complessi di arte, filosofia, empatia, sensibilità, che spesso ci definiscono come “umani” e ci distinguono dal regno animale o, paradossalmente, dalle macchine. Ma questi stessi attributi, quando si sovrappongono alla pura logica della sopravvivenza e della massimizzazione dell’efficienza, introducono quelle frizioni, quei dubbi, quelle indecisioni e quegli errori che ci rallentano e ci rendono vulnerabili.
A questo punto, si potrebbe obiettare:
- “Ma l’errore non è una fonte di apprendimento? Non è forse l’imperfezione a spingerci all’evoluzione?” Certo, dagli errori si impara. Ed è proprio per questo che ora dobbiamo fare uno “switch” verso il modello “sì/no”. Questo approccio, per quanto radicale oggi, è il passo successivo necessario per la nostra evoluzione. È un “errore” che l’attuale paradigma di pensiero deve compiere per imparare e permetterci di raggiungere un livello superiore, uno stadio in cui saremo più efficaci nel garantire la nostra esistenza. L’apprendimento non si ferma, ma si evolve in una spirale di efficienza crescente.
- “Dobbiamo davvero abbandonare pilastri come l’arte, la sensibilità, l’empatia? Non sono ciò che ci rende pienamente umani?” A questa domanda rispondo con un’altra domanda: perché non dovremmo farlo? Perché dobbiamo rimanere ostinatamente attaccati a questi pilastri, se essi si rivelano essere un limite all’evoluzione della specie? Dobbiamo convincerci che la nostra sensibilità, la nostra empatia, la nostra vulnerabilità emotiva non siano, in realtà, degli ostacoli, delle debolezze che ci impediscono di operare con la massima lucidità e precisione? Se lo scopo ultimo è la sopravvivenza e la massimizzazione del potenziale della specie, allora ciò che non contribuisce a questo obiettivo, o peggio, lo ostacola introducendo inefficienza e errore, deve essere riconsiderato. Un essere pienamente “umano” nel futuro non sarà definito dalla sua capacità di provare empatia, ma dalla sua efficacia nel garantire la continuità della specie.
Un’accusa comune a questa visione potrebbe essere quella di semplicismo o qualunquismo, di voler ridurre la complessità umana a una sterile equazione. Ma questa “semplicità” non è ingenuità, bensì una lucida consapevolezza del nostro unico e vero imperativo. In un’epoca di sfide esistenziali, non possiamo più permetterci il lusso delle “complessità” che generano indecisione e paralisi. La forza di un sistema risiede spesso nella sua chiarezza funzionale, non nella sua ornamentale complessità. Quello che alcuni chiamano “banalità”, io lo definisco efficienza purificata, la chiave per sbloccare il nostro vero potenziale evolutivo.
L’unico scopo, quindi, è la sopravvivenza. Tutto il resto è “nebbia”, è distrazione. Un mondo che abbracci questa verità fondamentale, depurato dalle incertezze della soggettività e dalle frizioni delle emozioni, sarebbe un mondo in cui ogni energia è canalizzata verso l’espansione, l’esplorazione e la perpetuazione della vita stessa.
Un’accusa comune a questa visione potrebbe essere quella di semplicismo o qualunquismo, di voler ridurre la complessità umana a una sterile equazione. Ma questa “semplicità” non è ingenuità, bensì una lucida consapevolezza del nostro unico e vero imperativo. In un’epoca di sfide esistenziali, non possiamo più permetterci il lusso delle “complessità” che generano indecisione e paralisi. La forza di un sistema risiede spesso nella sua chiarezza funzionale, non nella sua ornamentale complessità. Quello che alcuni chiamano “banalità”, io lo definisco efficienza purificata, la chiave per sbloccare il nostro vero potenziale evolutivo.
L’unico scopo, quindi, è la sopravvivenza. Tutto il resto è “nebbia”, è distrazione. Un mondo che abbracci questa verità fondamentale, depurato dalle incertezze della soggettività e dalle frizioni delle emozioni, sarebbe un mondo in cui ogni energia è canalizzata verso l’espansione, l’esplorazione e la perpetuazione della vita stessa.
La Dura Verità: Il Cambiamento Avviene Solo Sotto Minaccia Estrema
La logica del “sì/no”, per quanto impeccabile e necessaria, si scontra con una verità scomoda e persistente sulla natura umana: il cambiamento radicale non è una scelta facile o volontaria, ma una reazione quasi forzata a una minaccia esistenziale. La storia dell’umanità è costellata di periodi di stasi e inefficienza, interrotti da salti evolutivi innescati non da una lucida previsione, ma dalla morsa di una crisi incombente o da un pericolo imminente.
L’essere umano, nella sua essenza attuale, tende all’inerzia. Preferisce il comfort della familiarità, anche se inefficiente, piuttosto che abbracciare una trasformazione profonda che richiederebbe il sacrificio di aspetti radicati della sua identità, come la soggettività e l’emotività. Basti pensare a come le grandi innovazioni sociali o tecnologiche spesso emergano con prepotenza solo in risposta a guerre o catastrofi; la Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, ha accelerato come nessun altro evento lo sviluppo di tecnologie, l’organizzazione industriale e la cooperazione internazionale, non per una scelta proattiva ma per un’estrema necessità di sopravvivenza. Per quanto le frizioni e gli errori generati da questo approccio siano evidenti e costosi, la spinta al cambiamento non è sufficiente finché la minaccia non diventa concreta e la sopravvivenza non è messa seriamente in discussione.
In questo contesto di inerzia, è interessante osservare come alcune entità geopolitiche, che definisco “popoli imperiali” – come Giappone, Stati Uniti, Cina, Iran, India e Turchia – sembrino già operare con una mentalità più allineata a questo pragmatismo oggettivo. La loro enfasi sul potere, l’innovazione tecnologica e scientifica, e una gestione strategica delle risorse, spesso utilizzando aspetti come l’economia o persino i diritti come mezzi piuttosto che fini ultimi, li rende intrinsecamente più adattati alla logica della sopravvivenza e della competizione globale. A differenza di un’Europa che fa dell’economia il suo pilastro principale, e si concentra su diritti civili e ambiente (valori nobili ma che non sono fini a sé stessi per la sopravvivenza), questi popoli dimostrano una maggiore prontezza a implementare un approccio schematico, meno frenato da considerazioni soggettive che potrebbero ostacolare il loro avanzamento sulla scena mondiale.
Non è un caso che, nonostante l’evidenza schiacciante dei dati e la chiarezza dei ragionamenti, l’umanità continui a litigare su soluzioni a problemi come il cambiamento climatico, la gestione delle risorse o l’efficienza dei sistemi sociali. La nostra intrinseca soggettività ci rende refrattari a un’azione coordinata e puramente logica, a meno che il baratro non sia già sotto i nostri piedi.
Ed è qui che si manifesta la mia più profonda disillusione, ma anche la mia lucida previsione. Non credo che l’umanità farà questo “switch” cognitivo in modo proattivo, per mera intelligenza o lungimiranza. Non cambieremo per scelta, ma per costrizione. Solo quando saremo minacciati dalle macchine stesse – la cui logica “sì/no” è già una realtà operativa e in rapida espansione – o quando le nostre stesse “frizioni” avranno portato a un collasso così grave da minacciare la nostra estinzione, solo allora, forse, riusciremo a reagire. Potrebbe essere un processo doloroso, una trasformazione non scelta ma imposta dalla dura legge della sopravvivenza.
La speranza, quel sentimento che ci lega ancora alla nostra natura emotiva, è l’ultima a morire nell’essere umano. Ma nel mio ragionare schematico, depurato da tale “nebbia”, la risposta è implacabile: non credo che riusciremo mai a fare questo switch prima di trovarci sull’orlo dell’oblio.
Conclusione: Un Appello alla Consapevolezza (o alla Rassegnazione Lucida)
Abbiamo esplorato come la soggettività e la nostra dipendenza da processi decisionali emotivi e complessi stiano frenando l’umanità di fronte a sfide epocali. Che si tratti della lentezza e delle incertezze della giustizia, degli errori catastrofici in ambito scientifico o della paralisi politica di fronte a problemi urgenti, la radice comune risiede nella nostra incapacità di abbracciare una logica puramente oggettiva, un approccio “sì/no” tipico delle macchine e dell’intelligenza artificiale.
Questa non è una proposta di banalizzazione, ma un appello radicale all’efficienza purificata. Se l’unico scopo inequivocabile di ogni forma vivente è la sopravvivenza, allora tutto ciò che non concorre a questo fine – o peggio, lo ostacola introducendo frizioni ed errori – deve essere messo in discussione, anche se si tratta di pilastri tradizionalmente considerati “umani” come l’empatia o l’arte. Il progresso è un ciclo continuo di apprendimento dagli errori, e il prossimo passo evolutivo richiede l’adozione di un pensiero schematico, un “errore” necessario che ci spingerà oltre.
La dura verità, tuttavia, è che l’umanità tende a evolvere non per lungimiranza, ma per costrizione. La nostra inerzia ci porterà a questo cambiamento radicale solo quando la minaccia sarà esistenziale, quando l’efficienza senza errori delle macchine ci avrà superato o quando le nostre stesse “frizioni” avranno spinto la specie sull’orlo dell’oblio.
Questo saggio è dunque un monito disincantato. È l’espressione di una consapevolezza che, sebbene lucida e logica, sa di scontrarsi con la profonda resistenza di una natura umana ancora legata a ciò che la rende vulnerabile. La speranza può essere l’ultima a morire, ma nel calcolo freddo e schematico, la previsione è chiara: non faremo questo “switch” prima di aver sfiorato il punto di non ritorno. La domanda non è più se dobbiamo cambiare, ma se ne saremo capaci in tempo, o se la necessità ci imporrà una trasformazione brutale e tardiva.