Il Fantasma del Terzo Mondo
Chi è oggi il Terzo Mondo? La domanda, posta nell’attuale 2025, risuona con un’eco quasi grottesca, anacronistica, come se provenisse da un’epoca lontana, superata dai libri di storia e dalle statistiche di crescita. Nell’immaginario collettivo occidentale, e in particolare in quello italiano ed europeo, il “Terzo Mondo” evoca istantaneamente immagini di povertà estrema, di fame endemica, di assenza disperata dei diritti umani più elementari, di conflitti senza fine e di infrastrutture fatiscenti. È un luogo remoto, un concetto che ci permette di definire, per contrasto, la nostra presunta superiorità. Ci rassicuriamo, con una convinzione quasi dogmatica, affermando che noi, con la nostra complessa (e a volte disfunzionale) sanità pubblica (l’abbiamo ancora, o è solo un ricordo?), la nostra rete di sicurezza sociale (seppur logorata dalle crisi) e le nostre celebrate libertà democratiche, non potremmo mai, nemmeno per un istante, rientrare in una definizione così brutale e degradante.
Ma questa rassicurazione, per quanto umanamente comprensibile e fondata su alcune verità innegabili, potrebbe rivelarsi la nostra condanna. È una bolla, una narrazione auto-costruita e auto-alimentata, che ci avvolge in un velo di compiacimento e ci impedisce di percepire la realtà con lucidità. Una narrazione che ci spinge a credere che la nostra posizione nel mondo sia immutabile, un diritto divino, quando invece il panorama globale si sta ridefinendo con una logica spietata, binaria, di sopravvivenza nuda e cruda. In questo nuovo scacchiere, la nostra presunta superiorità non è più una garanzia, ma potrebbe rivelarsi la nostra più grande fragilità. Siamo così convinti di essere il centro del mondo da non accorgerci che le vere leve del potere si stanno spostando, lasciandoci incatenati a un’illusione che, presto o tardi, potrebbe crollare, rivelandoci una verità ben più scomoda.
L’ombelico del Mondo
Questa auto-percezione distorta, questa convinzione granitica di essere il faro della civiltà, non è affatto casuale. È il frutto di un mix complesso: un legittimo, e spesso grandioso, orgoglio per un passato innegabilmente glorioso, ma anche una pericolosa e crescente miopia sul presente e sul futuro. Per intere generazioni, siamo stati intrisi di una narrativa di primato quasi inattaccabile. Ci siamo crogiolati nel racconto di essere la culla dell’Impero Romano, la fucina del Rinascimento, il terreno fertile da cui sono germogliate la filosofia occidentale, la scienza moderna, l’arte e i concetti di democrazia e diritto. Le nostre città non sono semplici agglomerati urbani; sono musei a cielo aperto, le nostre tradizioni radici profonde che affondano in millenni di storia. Tutto questo, innegabilmente, ci ha infuso una sensazione di superiorità intrinseca, quasi un diritto divino a occupare il podio più alto della civiltà mondiale. È umanamente difficile, quasi impensabile, scrollarsi di dosso il peso e la gloria di secoli di un tale pedigree.
Eppure, questa stessa narrazione è, a un’analisi più profonda, disperatamente etnocentrica. Ci illudiamo che la “nostra” storia, la nostra traiettoria di sviluppo, sia in qualche modo intrinsecamente “superiore” o più importante di ogni altra. Ma come possiamo sostenere una tale tesi quando la storia stessa ci mette di fronte alla grandezza e all’influenza di civiltà altrettanto, se non più, antiche e complesse? Quante ore dei nostri programmi scolastici, dei nostri dibattiti pubblici, delle nostre analisi, sono dedicate a studiare, con la dovuta profondità, la storia di Babilonia, non solo una delle prime ma per molti versi la prima vera civiltà urbana, con le sue leggi, le sue scoperte astronomiche e architettoniche? E la millenaria cultura della Persia, che ha preceduto di secoli e influenzato non poco il mondo greco-romano? O l’infinita saggezza e le scoperte scientifiche dell’India, o la continuità millenaria della Cina? Il nostro curriculum scolastico è una linea retta, rassicurante e predefinita, che va da Atene a Roma, passando per il Rinascimento e le rivoluzioni europee, come se il resto del mondo fosse rimasto in un sonno profondo per secoli, o fosse solo un mero contorno. Il motivo di questa omissione non è casuale né innocente; è una scelta, implicita o esplicita, di un sistema che mira a perpetuare una narrazione che ci conferma la nostra centralità e superiorità, impedendoci di comprendere la reale complessità, il dinamismo e la brutalità delle logiche che oggi muovono il palcoscenico globale.
Altri Nomi di Libertà
Accanto all’orgoglio per un passato grandioso, un altro pilastro su cui si fonda la nostra presunzione è la ferma convinzione che il nostro sistema di democrazia liberale, con la sua enfasi sui diritti umani individuali e un certo tipo di stato sociale, rappresenti l’apice incontrastato della civiltà. Ci persuadiamo che il “nostro” sia il modello più giusto, più desiderabile, l’unica vera aspirazione per ogni popolo sul pianeta. E su questo punto, l’autoinganno raggiunge forse il suo apice. Si può ammettere, in linea di principio, che un sistema democratico, basato sulla libertà di espressione e sulla partecipazione, possa incarnare un ideale nobile. Ma questo non implica affatto che sia ciò che la gente, in ogni angolo del mondo, desideri ardentemente o consideri la sua priorità assoluta.
La dura, scomoda verità è che la libertà di voto o di parola spesso assume un significato diverso, o semplicemente meno prioritario, rispetto alla cruda necessità di avere un piatto caldo in tavola, accesso all’acqua potabile o la sicurezza di non morire sotto i bombardamenti. Ma al di là della pura sopravvivenza, c’è una verità ancora più sferzante: la “nostra” concezione di libertà — quella fatta di orari di lavoro ben definiti, aperitivi spensierati, vacanze esotiche e serate davanti a Netflix — è un modello culturale specifico, un prodotto del benessere post-bellico che non ha risonanza universale. In Medio Oriente, in Asia, in Sud America, la concezione di libertà è intrinsecamente legata a valori differenti: alla comunità, alla tradizione, alla fede religiosa, o semplicemente alla capacità di autodeterminazione e all’assenza di ingerenze esterne. Non sono interessati a replicare il nostro stile di vita, spesso lo disprezzano per la sua superficialità percepita.
Questa nostra presunzione cieca e auto-referenziale ci ha isolati da una comprensione autentica del mondo. Ci siamo adagiati, convinti che la nostra visione fosse l’unica possibile e che la “corrente filo-americana occidentale” fosse l’unica via per il progresso. La storia recente, tuttavia, ci mostra il contrario. Paesi con una forte identità storica e imperiale come la Russia, l’Iran (erede della gloriosa Persia) e la Turchia (erede dell’Impero Ottomano) hanno vissuto momenti di profonda crisi interna proprio quando la loro élite era percepita come troppo allineata o supportata dalla “mano nascosta dell’Occidente”. In Iran, la rivoluzione del 1979 che rovesciò lo Shah Mohammad Reza Pahlavi fu alimentata, in parte, dalla percezione diffusa che il suo regime fosse un burattino degli Stati Uniti, ignorando le radici culturali e religiose del paese. In Russia, la “ribellione” contro le riforme di Gorbaciov e il successivo collasso dell’Unione Sovietica furono seguiti da un profondo risentimento verso ciò che molti percepivano come un’eccessiva “occidentalizzazione” forzata, che aveva minato la loro identità e sovranità. Lo stesso si può dire per alcune reazioni in Turchia contro tendenze considerate troppo “europeiste” a discapito dei valori tradizionali.
Anche in Cina, l’apertura economica post-Mao, pur avendo portato immense opportunità e una rapida crescita, è stata attentamente gestita dal Partito Comunista proprio per evitare una dissoluzione culturale o politica sull’onda di valori occidentali, mantenendo un controllo ferreo sulla narrazione e sui diritti individuali per preservare la stabilità e la coesione nazionale. Allo stesso modo, l’India, la più grande democrazia del mondo, ha sempre bilanciato le influenze esterne con un profondo rispetto per le proprie tradizioni millenarie e una visione non allineata, dove lo sviluppo economico e la sicurezza nazionale spesso prevalgono su alcune libertà individuali percepite come occidentali. Persino il Messico, un paese che guarda al futuro con una popolazione giovane e dinamica, non si limita a subire l’influenza del suo potente vicino. La sua ambizione, espressa attraverso narrazioni culturali e demografiche, di “riconquistare Aztlán” — i territori persi nel XIX secolo, ovvero gli attuali Texas, New Mexico e California — non è una minaccia militare diretta, ma una potente affermazione identitaria e demografica. Non è un atteggiamento da “staterello”, bensì la dimostrazione che per molti popoli il senso di appartenenza a una realtà più vasta, e la riscrittura della propria storia, sono motori potenti, ben oltre le nostre categorie di progresso. A tal proposito, è interessante notare come alcuni studi di etimologia alternativa suggeriscano che il termine “chilango”, usato per riferirsi agli abitanti della capitale messicana, possa derivare da “Chilan”, che si tradurrebbe come “terra rossa”. Un riferimento alle vaste regioni di terre rosse del Nord America (come Arizona, New Mexico, Texas) da cui provenivano anticamente popoli come gli Aztechi. Questa interpretazione, al di là delle etimologie più convenzionali, rafforza l’idea che per i messicani la loro identità di “americani” (nel senso continentale del termine, ovvero abitanti delle Americhe) sia profondamente radicata nella storia e nel territorio, superando l’accezione limitante riferita solo agli Stati Uniti.
Questa radicale diversità di prospettive è un indicatore cruciale di quanto siamo distaccati dal mondo reale. Noi, nella nostra bolla occidentale, crediamo che le dinamiche di conquista, guerra, appartenenza territoriale spinta e potere nudo siano concetti confinati ai libri di storia, sepolti nel passato di un Medioevo cruento o di un colonialismo da condannare. Per noi, la sola idea di “sussurrare” di rivendicare territori come la Dalmazia o l’Istria ci farebbe immediatamente etichettare come nostalgici, fascisti o nazisti – categorie stigmatizzate, e spesso a ragione, ma che ci impediscono di affrontare lucidamente la realtà. E quando, puntualmente, il mondo ci smentisce con prepotenza, quando altre nazioni agiscono secondo queste logiche millenarie, noi rimaniamo sbalorditi, sorpresi e, soprattutto, profondamente impauriti, perché ci rendiamo conto che le regole del gioco globale non sono quelle del nostro club esclusivo.
La Storia Dimenticata
Questa profonda miopia e il nostro distacco dalla cruda realtà del mondo non sono un’innata deficienza, ma il risultato diretto di un contesto storico specifico: il lungo periodo di relativa stabilità e “ricchezza” che abbiamo vissuto nel dopoguerra. Per decenni, in Italia e in gran parte dell’Occidente, abbiamo navigato in acque tranquille, convinti che la prosperità fosse la norma, non un’eccezione temporanea. Crescita economica quasi costante, sviluppo dello stato sociale, un benessere diffuso (almeno in confronto al passato e al resto del mondo) ci hanno cullato in un’illusione pericolosa: quella che il tempo e le dinamiche sociali, globali ed economiche fossero, come cristalli, strutture stabili, rigide e immutabili. Questa convinzione ci ha resi pigri, intellettualmente e strategicamente. Quando la vita è comoda, quando il piatto è pieno e il futuro sembra garantito, la necessità di guardare al passato per capire il presente svanisce. Abbiamo dimenticato di studiare la storia non per pigrizia, ma perché non ne sentivamo il bisogno vitale. Lezioni su come gli imperi sorgono e cadono, su come le civiltà affrontano le minacce esistenziali, su come le potenze si muovono nel Grande Gioco globale, sono diventate esercizi accademici fini a sé stessi, non bussole per orientarsi nel mondo. Abbiamo smesso di “guardarci intorno”, perché eravamo convinti di aver già raggiunto l’apice, e di “capire come evolveva il mondo” perché eravamo certi che la sua evoluzione dovesse necessariamente allinearsi ai nostri valori e ai nostri interessi. Questa è l’inerzia della prosperità: una cecità autoimposta, confortante, ma mortale.
Il risultato è un’incapacità quasi totale di leggere i segnali di un mondo in ebollizione. Le crisi, le guerre inaspettate, i cambi di paradigma tecnologici e geopolitici ci colpiscono come fulmini a ciel sereno, non come eventi prevedibili in un quadro storico più ampio. Siamo rimasti ancorati a un’idea di progresso lineare, ignorando i cicli di ascesa e caduta, le dinamiche di potere e l’implacabile logica della sopravvivenza che continuano a plasmare il destino delle nazioni, ben oltre i nostri confini idilliaci.
Sotto la Superficie
Se il dopoguerra ci ha ingannato con la promessa di una stabilità eterna, il presente ci sta prosciugando con l’illusione di una ricchezza che, per la maggior parte della popolazione, è diventata un miraggio. La verità
scomoda è che la “ricchezza” come l’abbiamo immaginata – ampia, stabile, distribuita equamente e basata su fondamenta solide – non esiste più per la maggioranza delle persone in quasi nessun paese al mondo. È un mito che continua a permeare le nostre discussioni e le nostre aspettative, nonostante i dati mostrino una realtà ben diversa.
Non lasciamoci ingannare dalle statistiche sul PIL o dai report economici che celebrano la crescita di pochi. La vera misura della ricchezza di una nazione dovrebbe essere la capacità della sua popolazione di accedere a un benessere diffuso e sostenibile: la possibilità di formare una famiglia, di comprare una casa, di accedere senza ostacoli a tutti i servizi primari (educazione, sanità, trasporti). Con onestà brutale, possiamo affermare che oggi non esiste paese in cui più del 50% della popolazione viva effettivamente in queste condizioni di stabilità e prosperità. Al contrario, la concentrazione della ricchezza è diventata un fenomeno globale e inarrestabile, polarizzando le società e creando sacche di privilegio sempre più piccole a fronte di una crescente precarietà per la maggioranza.
Questo prosciugamento avviene lentamente, quasi impercettibilmente, senza che ce ne rendiamo conto. Non è un crollo improvviso, drammatico, ma un’erosione costante del potere d’acquisto, della possibilità di fare progetti a lungo termine, dell’accesso a servizi un tempo dati per scontati. Mentre ci crogioliamo nell’idea di essere ancora “ricchi” (o di esserlo stati), o di vivere in un “Primo Mondo” fatto di certezze, il terreno sotto i nostri piedi si sta assottigliando pericolosamente. Non percepiamo il declino relativo del nostro potere, l’indebolimento della nostra posizione economica e sociale, perché siamo ancorati a una nostalgia di prosperità e a una cecità autoimposta. Questo ci rende incapaci di comprendere che la competizione globale è sempre più agguerrita, e che le risorse del pianeta, e quelle del futuro, non saranno mai abbastanza per tutti, in un mondo che si avvicina agli 8 miliardi di abitanti.
Il Vero “Terzo Mondo”: Vulnerabilità Strategica e Inerzia Imperiale
Se i vecchi parametri sono ormai inutili, chi è allora il vero “Terzo Mondo” oggi? Non è più una questione di PIL pro capite o di accesso a un’igiene di base. Nel 21° secolo, essere “Terzo Mondo” significa trovarsi in una condizione di vulnerabilità strategica, di dipendenza strutturale e, soprattutto, di incapacità di agire con una “logica sì/no” chiara e implacabile per difendere i propri interessi vitali. Significa essere una pedina, un campo di gioco, non un giocatore indipendente nello scacchiere globale.
Ed è qui che la verità diventa scomoda per noi. L’Italia, e con essa gran parte dell’Europa, rientra prepotentemente in questa nuova, brutale definizione. Nonostante le nostre sofisticate infrastrutture e il benessere residuo, siamo intrinsecamente dipendenti. La nostra autonomia energetica è un miraggio, rendendoci ostaggi di forniture esterne e di dinamiche geopolitiche che non controlliamo. La nostra proiezione di potere militare autonomo è quasi inesistente, costringendoci a operare sotto l’ombrello di potenze esterne o a essere coinvolti in conflitti che non sono nati da nostre autonome decisioni strategiche. Siamo afflitti da una frammentazione politica e da una lentezza decisionale che ci paralizzano, impedendoci quella prontezza e coesione necessarie a proteggerci in un mondo spietato. Agiamo spesso non per nostra iniziativa, ma come reazione o come pedine in un gioco molto più grande.
Chi, allora, non è “Terzo Mondo” in questa nuova accezione? I “popoli imperiali” – gli Stati Uniti, la Cina e la Russia – sono i veri attori con una piena autonomia strategica, capaci di agire con una “logica sì/no” brutale e disinteressata dalle nostre narrative morali. Ma il quadro è più ampio e complesso. Ci sono nuovi attori con logiche emergenti, che non sono “imperi” nel senso tradizionale ma che agiscono con una pragmatica visione di potere e sopravvivenza:
- Il Messico: Non è affatto uno “staterello” passivo. Con una popolazione giovane e dinamica, un contrappunto ai paesi più anziani come l’Italia o il Giappone, il Messico incarna la forza di un popolo
con una profonda identità e la chiara, seppur interna, aspirazione a riprendersi ciò che storicamente sente suo. Questa visione, inconcepibile per noi europei che releghiamo simili dinamiche a un passato remoto, dimostra il nostro profondo distacco dalla realtà di un mondo in cui la storia e le rivendicazioni territoriali continuano a essere motori potenti. - Brasile, India, Sud Africa: Queste nazioni, membri dei BRICS e sempre più assertivi sulla scena internazionale, non si limitano a subire. Possiedono immense risorse, un’enorme base demografica e una crescente autonomia economica e politica, agendo con una logica di bilanciamento dei poteri che spesso scavalca le polarizzazioni imposte dall’Occidente.
- Canada e Australia: Pur essendo storicamente legati al blocco occidentale, non possono essere considerati “Terzo Mondo” in questa nuova accezione. Possiedono vastissime risorse naturali e un’immensa estensione territoriale che conferisce loro una resilienza e una rilevanza strategica in un mondo che va verso la scarsità di risorse. Se l’Australia può sembrare “fuori dal mondo” per la sua posizione geografica, è proprio questo isolamento relativo, unito alle sue risorse, a renderla un potenziale bastione in scenari futuri.
- Il Mondo Arabo e il Medio Oriente (es. Arabia Saudita, EAU): Sebbene complessa e frammentata al suo interno, questa regione detiene un ruolo fondamentale per il futuro, non solo per le immense risorse energetiche. Il Medio Oriente si sta delineando come il nuovo “centro del mondo” strategico, un po’ come l’Europa lo è stato nel XX secolo dopo le Guerre Mondiali. Qui, i grandi imperi (Russia, Cina e Stati Uniti) non combattono più con le armi convenzionali come un tempo, ma “ci giocano sopra” con massicci investimenti, alleanze mutevoli e una proiezione di influenza sempre più aggressiva, riconoscendone la centralità per il controllo delle rotte commerciali, energetiche e per la proiezione di potere a livello globale.
- Paesi africani (come Kenya o Etiopia): Non più solo “poveri”, ma vitali per le risorse, la demografia in esplosione e la posizione strategica. Il loro “sottosviluppo” è spesso funzionale a permettere agli “imperi” di investire, sfruttare e controllare, rendendoli campi di gioco cruciali nella competizione globale.
- Il Pakistan: Con le sue capacità nucleari e tecnologiche avanzate, e una posizione geopolitica nevralgica nel confronto con l’India, il Pakistan non è una semplice vittima di circostanze, ma un attore di potere con cui i “grandi” devono fare i conti.
La nostra vulnerabilità è paradossale: siamo più “Terzo Mondo” di Haiti o dello Yemen. Non per miseria materiale, ma perché la nostra prosperità apparente ci ha vincolati a questo status. Abbiamo perso quella capacità di sopravvivenza di base, quella resilienza pragmatica che Haiti e lo Yemen, pur nella loro disperazione, hanno sviluppato per millenni. La nostra opulenza (percepita) ci ha resi molli, incapaci di affrontare la cruda realtà, mentre loro, abituati all’abbandono, sanno come tirare avanti quando il sistema collassa.
La Falsa Pace e il Vero Gioco Globale
Se viviamo in questa pericolosa bolla, è perché qualcuno la alimenta e la protegge. E il ruolo dei nostri media – dai “giornalisti” agli “esperti” televisivi – è, in questo contesto, tanto cruciale quanto desolante. La loro è spesso un’ignoranza profonda, mascherata da un’estrema soggettività che deforma la realtà per adattarla alla nostra narrativa preconcetta. Non si tratta solo di incompetenza, ma di una funzione quasi involontaria, eppure sistemica, che ci impedisce di vedere il mondo per quello che è.
Quanti dei nostri opinionisti hanno una reale comprensione della storia millenaria e delle logiche di potere che muovono nazioni come la Cina, l’India, l’Iran o persino i paesi africani? La loro lente è quasi sempre monoculare, filtrata da una visione occidentale, progressista e democratico-liberale. Il risultato è un’analisi superficiale e fuorviante. Ogni evento, ogni conflitto, viene edulcorato o demonizzato a seconda di quanto si adatta alla nostra storia edificante, non alla sua realtà oggettiva. Non riusciamo a metterci nei panni dell’altro, a capire le sue motivazioni storiche, culturali, religiose o strategiche, perché il nostro mondo ruota attorno a paradigmi che non sono universali. Le proteste “noiose” per l’Ucraina o la Palestina, per quanto animate da sentimenti nobili, spesso rivelano un attivismo scollegato dalla complessità geopolitica, dove la compassione prevale sulla comprensione delle dinamiche di potere.
Questa superficialità diventa palese quando si parla di pace e diplomazia. Ci illudiamo che organismi come il G7 siano i veri motori della pace globale. Ma il G7 non è un tavolo di negoziazione neutrale; è un club di Stati prevalentemente filo-americani, di fatto alleati o dipendenti da un’unica potenza imperiale. La sua funzione non è promuovere una pace universale, ma mantenere un ordine che favorisce gli interessi di quel blocco, mascherato da valori “universali” come la democrazia o i diritti umani. È un’ipocrisia lampante, che la nostra bolla ci impedisce di vedere.
Se si volesse veramente la pace, quella duratura e basata su un equilibrio di poteri, la tavola delle negoziazioni dovrebbe essere radicalmente diversa. Dovrebbe includere i veri attori globali che agiscono con la “logica sì/no”, al di là delle narrazioni moralistiche: Stati Uniti, Cina, Russia, India, Brasile, Sud Africa, Giappone, Iran e Arabia Saudita. Questo è il tavolo dove si gioca la vera partita, dove la pace non è un valore intrinseco, ma il risultato pragmatico di un bilanciamento di interessi strategici e di un’affermazione di potere. Escludere giocatori così influenti non rivela un impegno per la pace, ma la volontà di mantenere un’egemonia.
I nostri stessi leader, in questo contesto, appaiono spesso come figure di facciata, con “pochi poteri” reali. Ma la verità è che essi agiscono all’interno di una “logica imperiale” più profonda e coesa, che opera al di là delle promesse elettorali o dei proclami pubblici. La nostra incapacità di vedere questa logica è la prova più lampante della nostra bolla: non riusciamo a leggere gli eventi (come il conflitto tra Hamas e Israele, che per noi è solo una questione etica o umanitaria, ma che per i grandi attori è anche una strategia per indebolire l’Iran) perché siamo bloccati in una visione sentimentale e moralistica del mondo, incapaci di comprendere la spietatezza del potere.
L’ultimo Squillo
Abbiamo viaggiato attraverso i meandri della nostra auto-percezione, smascherando le narrazioni rassicuranti che ci hanno avvolti in una bolla pericolosa. La nostra presunta superiorità storica, la convinzione della universalità dei nostri valori e la cieca fiducia in una prosperità eterna si sono rivelate non solo infondate, ma vere e proprie ancore che ci trattengono mentre il mondo intorno a noi cambia a velocità vertiginosa. Abbiamo visto come i media, con la loro ignoranza e soggettività, e un sistema educativo miope, abbiano contribuito a mantenere questa illusione, impedendoci di riconoscere le vere dinamiche di potere che muovono il mondo.
La realtà è impietosa: l’Italia, e gran parte di ciò che crediamo essere il “Primo Mondo” occidentale, è in verità un “Terzo Mondo Strategico”. Non per la mancanza di pane quotidiano o di diritti primari, ma per la nostra intrinseca vulnerabilità, la nostra dipendenza, e l’incapacità di agire con una logica di sopravvivenza pragmatica e disillusa.
Il futuro non attende le nostre indecisioni né le nostre nostalgie. Le vere potenze – gli imperi riconosciuti e quelli emergenti – stanno già giocando la loro partita con una spietata logica di interessi, occupando nuovi spazi strategici (dallo spazio profondo agli abissi oceanici) e riscrivendo le regole della geopolitica. Per loro, i”popoli non imperiali” come noi sono risorse, mercati o, al massimo, campi di gioco su cui proiettare influenza e consolidare il proprio potere.
È tempo di svegliarsi. È urgente per noi riconoscere la nostra reale posizione, smettere di crogiolarci in un’illusione di superiorità e affrontare il mondo con una logica disincantata, fredda, quasi brutale. Solo uscendo da questa bolla, solo studiando la storia senza censure e comprendendo le vere dinamiche del potere, potremo sperare di non essere solo spettatori passivi o, peggio, vittime di un futuro che stiamo ignorando. La sopravvivenza non è un diritto acquisito; è una lotta costante che richiede lucidità, pragmatismo e la capacità di liberarsi dalle narrazioni che ci imprigionano.