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In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale sta ridisegnando i confini dell’innovazione, del lavoro e persino della democrazia, l’Europa si trova a un bivio cruciale: diventare protagonista o restare marginale. La corsa globale all’AI non aspetta nessuno. Eppure, nel cuore dell’Unione Europea, dove la cultura, la conoscenza e la ricerca sono radicate profondamente, sembra mancare ciò che più conta in questo momento storico: una visione politica unitaria, coraggiosa, capace di assumersi la responsabilità di costruire il futuro. In questo contesto si inserisce l’intervista del filosofo Luciano Floridi, tra i massimi esperti mondiali di etica digitale e intelligenza artificiale, raccolta da Adele Sarno per huffingtonpost.it. Una voce lucida, autorevole, appassionata, che lancia un appello diretto all’Europa: non possiamo permetterci di restare indietro. Le sue parole sono un mix di analisi tecnica, visione politica e, soprattutto, di profonda consapevolezza sociale. Floridi comincia con un monito netto: “Bloccare l’AI Act europeo sarebbe un suicidio strategico”. La legge, già approvata, rappresenta uno strumento fondamentale per dare forma a un’AI affidabile, etica, trasparente. “Siamo già in ritardo rispetto alla velocità con cui avanza la tecnologia”, dice, sottolineando l’urgenza non solo di regolamentare, ma anche di agire, di costruire soluzioni concrete. Non bastano le norme: serve una visione.
La sua proposta è semplice quanto potente: un’AI open source, gratuita, di alta qualità e “made in Europe”, in grado di offrire un’alternativa ai modelli statunitensi e cinesi. “L’Europa ha una grande chance: fare una AI conforme all’AI Act da offrire a tutte le imprese, soprattutto le PMI”, afferma. Questa visione potrebbe trasformare l’Europa in un attore strategico globale, capace di attrarre fiducia, investimenti, e di influenzare le regole del gioco tecnologico su scala mondiale. Ma, evidenzia Floridi, il vero ostacolo non è tecnico né economico. “Il problema è politico. È un fallimento di volontà e di coordinamento. Oggi distillare modelli da tecnologie esistenti costa poco, lo dimostrano startup minuscole che riescono a costruire prodotti validi con risorse minime. L’Europa ha inoltre una miniera d’ora di dati di qualità, su cui esercitare i modelli generativi. Quindi la domanda è: perché non lo facciamo?”. L’Europa ha tutto ciò che serve: competenze, dati, tecnologie. Ciò che manca è la volontà di agire insieme. La frammentazione tra gli Stati membri, le resistenze nazionali – come nel caso di Francia e Germania, che hanno difeso i loro campioni nazionali a scapito di un progetto comune – impediscono la nascita di una strategia europea unitaria e ambiziosa.
In termini sociologici, questa situazione riflette un problema strutturale dell’Unione Europea: la difficoltà a pensarsi come soggetto politico unico, capace di affrontare sfide transnazionali con strumenti transnazionali. La tecnologia, e in particolare l’intelligenza artificiale, non conosce confini: il potere che esercita sulle vite delle persone – attraverso l’automazione del lavoro, la sorveglianza, la profilazione algoritmica – è immenso. L’assenza di una governance comune non è solo un limite politico: è un rischio sociale. “L’AI genera o esacerba concentrazione di potere, asimmetrie informative, effetti sociali, pressioni ambientali e squilibri geopolitici”, afferma Floridi. In questa frase si coglie tutto il carico di responsabilità che ricade oggi sulle istituzioni. Ecco perché lo Stato non può restare a guardare. “Il suo compito non è sostituirsi al mercato, ma fare bene ciò che gli compete: regolare, proteggere, ridistribuire”. È in questa prospettiva che l’Europa dovrebbe muoversi: non come regolatore passivo, ma come promotore di un ecosistema digitale fondato su valori condivisi. Come Floridi ribadisce, “non bastano i vincoli, serve anche dare una direzione allo sviluppo”. Ed è una direzione che deve essere chiara, trasparente, condivisa. Senza una leadership che si assuma questa responsabilità, l’Europa resterà irrilevante. “Finché in Europa nessuno si assume la responsabilità politica e strategica dell’intelligenza artificiale come priorità, temo che non ci sarà alcun progresso concreto”.
Una delle proposte avanzate è l’istituzione di un ministero per il digitale senza portafoglio, sul modello spagnolo: un coordinamento nazionale agile, capace di dare una direzione politica all’innovazione, senza aumentare la burocrazia. È un’idea concreta, realistica, replicabile. Un piccolo passo che potrebbe aprire la strada a un’azione più ampia, europea. Floridi cita poi un esempio virtuoso italiano: la FastwebAI Suite, sviluppata da Fastweb e Vodafone insieme a istituti, università e aziende editoriali. “È un esempio utile per capire che nel nostro Paese ci sono attori industriali pronti a investire seriamente sull’AI”, dice. È la dimostrazione che l’Italia, e l’Europa, possono costruire soluzioni AI di qualità, se sostenute da una visione strategica e coordinata. La sociologia ci insegna che ogni tecnologia porta con sé implicazioni profonde sulla società. L’intelligenza artificiale, in particolare, modifica le relazioni umane, ridefinisce le professioni, genera nuove forme di disuguaglianza e concentrazione del potere. Per questo non può essere lasciata solo al mercato. Serve una governance partecipata, che tenga conto degli impatti sociali, etici, ambientali. Indubbiamente, l’intervista di Floridi è una chiamata all’azione. L’Europa può ancora scegliere di essere protagonista del proprio futuro tecnologico. Può costruire un’AI open, etica, trasparente, con un “bollino blu” di qualità e sicurezza, capace di competere con le superpotenze globali e di offrire al mondo una terza via. Ma questa possibilità si tradurrà in realtà solo se qualcuno, al centro delle istituzioni europee, deciderà di farsene carico. “Si può fare. Il dubbio è se lo faremo”. In queste parole di Floridi c’è tutta la tensione di un’epoca che sta decidendo il proprio destino. La tecnologia, oggi, è anche una questione di civiltà.
Le decisioni che prendiamo ora plasmeranno il futuro in cui vivranno le prossime generazioni. La posta in gioco non è solo l’innovazione, ma la forma stessa della nostra democrazia, della nostra cultura, della nostra umanità.

