L’indagine dell’OCSE sulle “competenze cognitive”, denominata Survey of adult skills, sbatte l’Italia giù nella graduatoria e la piazza negli ultimi posti.
La ricerca, realizzata nel 2023 e basata sulle interviste a circa 160mila persone di età compresa tra 16 e 65 anni provenienti da 31 nazioni (Austria, Belgio, Canada, Cile, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Israele, Italia, Giappone, Corea del Sud, Lettonia, Lituania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Polonia, Portogallo, Singapore, Repubblica Slovacca, Spagna, Svezia, Svizzera, Regno Unito, Stati Uniti), vede l’Italia piazzarsi solo al 26esimo posto. Scopo della ricerca “misurare” le competenze di base dei cittadini, quelle che consentono alle persone di affrontare i normali problemi della vita quotidiana, di comprendere ciò che avviene intorno a loro.
Per questo sono stati analizzati due aspetti principali: la capacità di lettura e la comprensione di testi scritti (“dominio cognitivo della literacy”) e, poi, le capacità di comprensione e utilizzo di informazioni matematiche e numeriche (“dominio cognitivo della numeracy”). A questi è stata aggiunta un’analisi della capacità di raggiungere il proprio obiettivo in una situazione dinamica in cui la soluzione non è immediatamente disponibile (“dominio cognitivo del adaptive problem solving”). Ebbene, in tutti e tre questi settori l’Italia ha fatto registrare punteggi medi tra i più bassi, ma soprattutto ben al di sotto della media dei paesi OCSE. Su un massimo di 500 punti raggiungibili, gli italiani non sono andati oltre 245 punti in comprensione del testo (a fronte di una media dei paesi OCSE di 260), 244 punti in abilità di calcolo (contro una media OCSE di 263) e 231 punti nella capacità di risolvere i problemi (media OCSE di 250). Il 35% degli intervistati italiani (media OCSE: 26%) ha ottenuto un punteggio riguardante l’alfabetizzazione pari o inferiore a livello 1. Livello 1 significa che una persona potrebbe non essere in grado di comprendere anche brevi testi ed elenchi organizzati. Stessa situazione per le conoscenze in matematica: il 35% degli italiani si è piazzato sotto o al massimo ha raggiunto a stento il livello 1. In questo caso, livello 1 significa saper compiere operazioni di base con numeri interi (o calcoli in denaro), capire i decimali e trovare singole informazioni in tabelle o grafici. Ma non compiere operazioni che richiedono più passaggi (ad esempio, risolvere una proporzione).
Diversa la performance dei paesi in vetta alla classifica. A piazzarsi nelle prime posizioni, come al solito, alcuni paesi scandinavi con in testa Finlandia, Norvegia e Svezia. Ai quali nell’ultimo rapporto si sono aggiunti il Giappone (secondo assoluto) e i Paesi Bassi. Particolarmente grave la performance degli italiani in abilità di calcolo (l’Italia è solo quartultima) e nell’analisi dei problemi (addirittura terzultima). Tra gli aspetti degni di nota il fatto che i 4.847 italiani intervistati non hanno mostrato competenze cognitive molto diverse da quelle mostrate dagli intervistati tra il 2012 e il 2023. Al contrario pare essere aumentato il divario tra chi ha più competenze e chi ne ha meno: in pratica chi aveva competenze adeguate ne ha sempre di più e chi ne aveva meno è sempre più lontano dalla media nazionale e internazionale. Una situazione, quella italiana, e un gap all’interno dei confini nazionali, che hanno conseguenze immediate. A cominciare dai salari (e sulle aziende, sempre più in difficoltà nel trovare le competenze giuste tra i candidati che si presentano alle offerte di lavoro). In altre parole, chi è più povero (mediamente) lo è anche perché ha meno competenze. O, rovesciando i fattori, chi ha meno competenze solitamente ha più difficoltà a trovare impieghi che comportano salari più alti e migliori opportunità di carriera.
La conseguenza immediata (non solo per l’Italia) è che circa un terzo dei lavoratori nei paesi OCSE non è “adatto” al proprio lavoro, sia in termini di qualifiche, che di competenze o ambito di studio. Con conseguenze significative in termini di costi economici e sociali. Ad esempio, gli adulti che svolgono lavori che non richiedono il loro livello di istruzione ricevono uno stipendio inferiore del 12% rispetto ai coetanei che svolgono lavori ben abbinati. Questo significa anche un’altra cosa: che le persone in ruoli che non utilizzano le loro qualifiche possono essere portate a credere che il loro potenziale sia sprecato. E non considerano il proprio lavoro gratificante. Secondo gli esperti, il problema non sarebbe solo legato alla nazionalità ma anche alla famiglia di appartenenza: figli di genitori con scarse competenze mediamente incontrano maggiori difficoltà nel raggiungere posizioni di rilievo.
Di sicuro, non mancano le responsabilità a livello di governo. Nel 2010, l’Italia è diventata il Paese europeo che spende meno in istruzione nel confronto con Francia e Germania. Da allora, in Italia la percentuale di PIL destinato all’istruzione è rimasta bassa (4,1%), molto al di sotto della media dei paesi UE (4,7%). Solo pochi Stati destinano somme vicine al 4% del PIL per il settore istruzione: oltre all’Italia ci sono la Bulgaria (3,9%), la Grecia (3,8%), la Romania (3,2%) e l’Irlanda (2,7%). E non è un caso se questi paesi occupano tutti posizioni non al vertice nell’ultimo rapporto OCSE. Al contrario, tra i paesi che hanno fatto registrare il punteggio più alto nei test OCSE si sono piazzati Paesi Bassi e Danimarca: entrambi paesi che hanno destinato all’istruzione oltre il 5% del PIL.
Il titolo della pagina dedicata dall’OCSE alla presentazione della ricerca è “Do Adults Have the Skills They Need to Thrive in a Changing World?” (“Gli adulti hanno le competenze di cui hanno bisogno per sopravvivere in un mondo che sta cambiando?”). Non si sa. Di sicuro è preoccupante sapere che su tre italiani che leggeranno questo articolo, due comprenderanno cosa hanno letto. Il terzo no.