
[fonte foto: ilpartitocomunistaitaliano.it]
Per parlare del Volponi senatore è però opportuno iniziare dal Poeta, poiché in Volponi tutto si misura e si esprime mediante la poesia. Egli si affacciò con prepotenza sul panorama letterario italiano di fine prima metà del Novecento, a soli 24 anni, con la raccolta Il ramarro (1948). Si tratta di quaranta componimenti scritti nell’immediato dopoguerra, segnati dalla cifra stilistica dell’ermetismo, che si esprime nel frammento lirico paratattico, in versi densi, asciutti, eppure colmi di tensione metaforica.
Lo spazio poetico delineato in queste poesie si configura come un microcosmo naturale – vegetazione, animali, stagioni – che diventa specchio e proiezione del macrocosmo interiore, del tumulto giovanile dell’io. È lo stesso Volponi, in un’intervista contenuta in A lezione da Paolo Volponi, a chiarire la genesi di quella sua prima urgenza espressiva: “Perché scrivevo poesie allora, non ancora ventenne? Perché ero incerto, perché avevo paura…”. La poesia nasce quindi come necessità esistenziale, come rifugio, come strumento per dare ordine e voce a un mondo interiore abitato da visioni, turbamenti, desideri. Il giovane Volponi affida alla parola poetica ciò che il mondo scolastico e istituzionale non gli permette di esprimere. Nel liceo “Raffaello” – lo stesso dove Giovanni Pascoli aveva brillato – Volponi si sente oppresso, estraneo, schiacciato da un mondo fatto di regole rigide, discipline incomprensibili e autorità inaccessibili: “Ho passato anni di terrore in quel ginnasio, di vero dolore; anche perché non capivo nulla e nulla diventava mio”.
La scuola, simbolo di un’autorità ottusa e distante, non riesce a includere un giovane dotato di una sensibilità diversa, profonda. Da questa frattura nasce la necessità di una “altra” formazione: quella della strada, dei mestieri, della carne viva della società. È da qui che si sviluppa la figura dello scrittore civile, impegnato, consapevole del legame tra parola e realtà. Lo stile poetico di Volponi, già in Il ramarro, mostra una forte tensione formale: domina il sostantivo assoluto, si sospende l’articolo, si inseguono analogie inconsuete e epiteti sinestetici. Non si tratta di semplici scelte stilistiche: la ricerca formale riflette il tentativo di trovare un linguaggio capace di contenere e tradurre un’esperienza del mondo vissuta in modo pieno, viscerale, complesso. La poesia fu per Volponi un modo di “stare al mondo”, un linguaggio originario. Solo in seguito, con maturazione e consapevolezza, egli giunse alla narrativa, vissuta non come abbandono della poesia ma come sua espansione in un registro più ampio, più articolato, capace di contenere anche il sociale, l’economico, il politico.
Quando Volponi entra in Senato nel 1983, l’Italia sta attraversando una stagione complessa e ambigua. È l’epoca dell’edonismo reaganiano, dell’ascesa di Craxi, della spettacolarizzazione della politica, della fioritura economica parallela a una crescente corruzione sistemica. È anche l’Italia scossa dai fantasmi del terrorismo e dell’eversione, delle logge segrete, del caso Moro e delle verità negate. Volponi, in questo contesto, sceglie di “parlare come poeta”, non in senso retorico ma in senso etico: fare della parola un atto di verità. È illuminante una sua lettera indirizzata a Franco Fortini, nella quale afferma di voler vivere l’esperienza politica come scrittore, “per poter tentare di organizzare una verità sociale come romanzo o poema”. Non si tratta di poetizzare la politica, ma di mantenerla radicata nella realtà dell’uomo, nel suo dolore, nella sua speranza, nei suoi bisogni concreti.
Il suo primo intervento parlamentare, nel febbraio 1985, è dedicato proprio alla scuola: e lo affronta a partire dalla propria esperienza personale, con il coraggio di mettere in scena il dolore, l’alienazione vissuta da studente. La sua analisi della scuola è un esempio di politica fondata sull’empatia, sulla memoria, sulla consapevolezza del danno che un’istituzione può infliggere se non riesce a essere inclusiva. L’Italia che accoglie Volponi senatore è l’Italia della modernizzazione forzata, della televisione privata che plasma nuove coscienze, del boom della Borsa e della trasformazione della piccola borghesia in imprenditoria aggressiva. Ma è anche un paese che fa i conti con lutti e scandali: dalla morte di Calvi alla scoperta della loggia P2, dagli omicidi di La Torre e Dalla Chiesa al disastro di Chernobyl. In questo scenario, Volponi rappresenta una voce anomala: non si conforma, non si fa rappresentante dell’ideologia dominante. La sua è una politica della parola, dell’ascolto, della testimonianza. Il suo pensiero è radicato in una lunga esperienza precedente, vissuta nel mondo dell’impresa illuminata, presso l’Olivetti di Adriano Olivetti, e poi nella dirigenza culturale della Fondazione Agnelli, da cui si allontanerà per motivi ideologici.
È importante ricordare che Volponi fu politico ben prima della sua elezione formale. La sua attività negli anni Cinquanta con le iniziative meridionaliste di Olivetti, la sua appartenenza al PCI, la sua collaborazione giornalistica con l’Unità e il Corriere della Sera, i suoi interventi pubblici a favore delle periferie e dei marginali: tutto questo compone il profilo di un intellettuale che non ha mai smesso di esercitare la politica nella forma dell’impegno culturale e sociale.
Nel romanzo, nella poesia, nell’articolo, Volponi cerca sempre di dare forma a un’“etica della complessità”, di raccontare un’Italia che cambia troppo in fretta e spesso senza direzione. I suoi personaggi – da quelli di Memoriale a quelli di Le mosche del capitale – sono spesso vittime o testimoni delle trasformazioni economiche e morali del paese. Essi rappresentano la tensione tra l’individuo e il sistema, tra il lavoro e l’alienazione, tra la speranza e la sconfitta.