La caduta dell’Impero Romano non può presentarsi agli occhi dello storico attento come una “catastrofe inspiegabile”, né come il problema più difficile della storia o, peggio ancora, come un monito o una lezione morale per la civiltà europea. Tale visione, permeata di drammatismo e ammonimento, ha infatti alimentato per secoli la storiografia occidentale, nella quale la fine dell’Impero d’Occidente veniva letta come un momento di collasso totale, una cesura netta tra civiltà e barbarie. Tuttavia, una nuova prospettiva critica si è affermata nel XX secolo, grazie a studiosi come Henri Pirenne, Peter Brown e Jacques Le Goff, che hanno completamente trasformato la nostra comprensione del Tardoantico, liberandolo dall’ombra del declino e rivelandone le continuità profonde.
La tesi del “crollo” improvviso dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C. — quando il generale barbaro Odoacre depose l’ultimo imperatore Romolo Augustolo — è oggi considerata un’ipersemplificazione. Come ha evidenziato Peter Brown, non si tratta di un evento che segna la fine della civiltà, quanto piuttosto di una transizione lenta e profonda che ha dato forma a nuove strutture politiche, economiche e culturali. La caduta dell’Impero, osserva Brown, non deve più essere letta come un “memento mori” per l’Europa moderna, bensì come una metamorfosi della romanità in nuove forme.
A contribuire in modo decisivo a questo cambio di rotta fu Henri Pirenne, che già agli inizi del XX secolo propose un’ipotesi radicale nel suo saggio postumo Maometto e Carlomagno. Pirenne spostò il baricentro dell’attenzione storica dal 476 all’arrivo dell’Islam sulle sponde del Mediterraneo nel VII secolo. Secondo lui, i cosiddetti “barbari” che penetrarono nell’Impero romano non furono affatto distruttori, bensì portatori di una romanità rinnovata: parteciparono alla cultura latina, ne assorbirono i codici amministrativi, giuridici e linguistici, e cercarono legittimazione proprio attraverso il riconoscimento da parte dell’Impero d’Oriente.
Secondo Pirenne, la vera frattura avvenne con l’espansione islamica nel Mediterraneo. Fino a quel momento, l’Impero romano d’Occidente, pur politicamente frammentato, conservava una vitalità economica e culturale, come dimostrato dalle evidenze archeologiche: il commercio continuava fiorente lungo tutte le coste mediterranee, i manufatti circolavano, la ceramica si produceva in quantità, e i porti erano ancora pienamente operativi.
Pirenne sosteneva che fu solo con la conquista islamica di regioni chiave come la Siria, l’Egitto, il Nordafrica e la Spagna che l’unità economica del Mediterraneo si spezzò definitivamente. In quel momento, l’Europa si trovò isolata dal suo contesto mediterraneo, innescando quel processo di chiusura e riorganizzazione interna che avrebbe dato vita al Medioevo. La famosa frase di Pirenne riassume bene il senso di questa trasformazione:
«Senza l’Islam, l’impero dei Franchi non sarebbe forse mai esistito e, senza Maometto, Carlomagno sarebbe inconcepibile».
Il dibattito si è dunque spostato: non più perché è caduto l’Impero, ma come definire il periodo che va dal III all’VIII secolo d.C. Nasce così la categoria del Tardoantico, un’epoca che sfuma gradualmente la classicità e anticipa il Medioevo. Questa nuova lente storiografica ha portato a una revisione profonda delle categorie cronologiche tradizionali: l’opposizione netta tra “Alto Impero” (classico) e “Basso Impero” (decadente) è oggi superata in favore di definizioni più fluide come “Tardo Impero”, “Nuovo Impero” o “Era costantiniana”.
È qui che si inserisce la figura di Costantino, l’imperatore che cristianizzò l’Impero e ne riformò le strutture politico-amministrative. Secondo Santo Mazzarino, l’età costantiniana rappresenta un periodo di sintesi e trasformazione, non una fine. E se è vero che l’Impero muta nel IV secolo, è altrettanto vero che le sue basi culturali e materiali restano in larga parte inalterate.
A livello archeologico, i dati confermano la tenuta economica e commerciale dell’Impero almeno fino all’VIII secolo. Ad esempio, gli scavi lungo la costa meridionale siciliana (nell’area tra Agrigento e Siracusa) rivelano un’attività commerciale continua tra IV e IX secolo. Il cosiddetto Itinerarium per maritima loca, studiato da Uggeri e da Sommito e Scerra, documenta una rete viaria e commerciale attiva ben oltre la “caduta” politica dell’Impero. La costa sud-orientale della Sicilia, come dimostrano le evidenze lungo il torrente Biddiemi e il fiume Irminio, era collegata tanto con l’interno quanto con l’Oriente mediterraneo, suggerendo una piena integrazione in circuiti economici globali.
In Italia, così come in Gallia, in Spagna e nelle province balcaniche, la romanità sopravvisse a lungo dopo il 476. I “barbari” — Goti, Vandali, Longobardi — non distrussero le infrastrutture romane, ma le utilizzarono e ne perpetuarono le forme di governo. Il tentativo di Teodorico, re degli Ostrogoti, di presentarsi come il legittimo successore dei Cesari, accettato dall’Impero Romano d’Oriente, è emblematico di questa volontà di continuità.
La tesi della decadenza inarrestabile è dunque un mito storiografico che si è affermato nel XIX secolo in parte per esigenze ideologiche: era utile vedere nel passato romano un grande impero caduto per “decadenza morale”, per rafforzare l’identità degli Stati-nazione europei nascente. Ma questa visione, come sottolineava Arnaldo Momigliano nel 1978, non regge più: i problemi della Roma del V secolo sono qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli contemporanei, e non ha senso proiettare su di essi i nostri drammi politici o culturali.
Con Jacques Le Goff, il Tardoantico e l’Alto Medioevo hanno finalmente trovato una collocazione degna, non come un periodo di passaggio o di oscurità, ma come un’epoca autonoma, ricca, complessa, creativa. Le Goff propose una visione del Medioevo come “civiltà altra”, dotata di una propria coerenza e vitalità, nata non dal crollo ma dalla trasformazione di Roma.
La caduta dell’Impero, dunque, non è la fine di un mondo, ma l’inizio di un altro. Non è un disastro, ma una metamorfosi. E la storiografia contemporanea, grazie a fonti documentarie, archeologiche e storiografiche, è oggi in grado di restituire al Tardoantico la dignità di epoca storica a pieno titolo.
In definitiva, ciò che oggi emerge dallo studio della “caduta” dell’Impero romano è un paradosso affascinante: quella che per secoli è stata considerata la fine della civiltà classica, si rivela invece come la sua continuità in forme nuove. Un impero che muore senza morire davvero, perché la romanità – come dimostra la teoria di Pirenne – sopravvive e si trasforma, come ogni grande civiltà, nel corpo di coloro che un tempo venivano chiamati “barbari”.