
[foto: Atelier Jacobi Bodleain – Libreria Univesitaria di Oxford]
Tra i grandi rivoluzionari della narrativa europea del Novecento, Franz Kafka occupa un posto essenziale, al pari di Italo Svevo e, con qualche differenza di fondo, Luigi Pirandello. Ma per comprendere la portata innovativa dell’opera kafkiana, è necessario partire dall’uomo e dal contesto che l’ha formato. Nato a Praga nel 1883, in una famiglia ebraica tedescofona, Kafka cresce all’interno di una società stratificata culturalmente e linguisticamente, sospesa tra il tedesco delle élite e il ceco del popolo, in un impero austro-ungarico destinato alla dissoluzione.
Il padre, Hermann Kafka, esercita un’autorità quasi tirannica, incarnando l’archetipo del potere ottuso e oppressivo che diventerà centrale nella narrativa del figlio. Franz, timido e fragile, percorre la via obbligata della rispettabilità borghese: studi in legge, impiego statale, vita apparentemente ordinaria. Ma dentro di sé coltiva una scrittura inesausta e perturbante, specchio di una sensibilità vertiginosa che abita le faglie dell’identità, del linguaggio e del potere.
L’innovazione di Kafka non si riduce a un tratto stilistico o a un semplice gesto di rottura narrativa. Si tratta piuttosto di una trasformazione epistemica della narrativa stessa, nella quale l’uomo non è più il centro della rappresentazione, ma diventa una soglia, un campo di forze in tensione. Se Rousseau aveva visto nell’animale un punto di confronto per recuperare un’origine innocente dell’uomo, Kafka rovescia il paradigma: tra uomo e animale non vi è distanza, ma continuità ambigua, scivolosa, incomponibile.
Nella sua opera – basti pensare a racconti come Una relazione per un’accademia o La metamorfosi – l’animale non è allegoria, non è simbolo: è il riflesso deformante dell’umano, la sua parte non detta, oscura, repressa. Ma l’autore praghese non racconta mai la mutazione in sé; ciò che interessa è lo spazio psichico e narrativo che si apre attorno al mutamento, il vuoto semantico che si genera quando i confini identitari si dissolvono. Gregor Samsa si sveglia insetto, non si sa come, non si sa perché, e nessuna spiegazione sarà mai data. È lì che Kafka innova: nel non detto, nell’omissione strutturale, nella rarefazione del reale.
Lo spazio kafkiano, allora, non è sfondo, ma campo semantico instabile, luogo della crisi percettiva. Lì si produce la “vertigine” di cui parlano i lettori: una condizione esperienziale prima che intellettuale. Come notava Nietzsche, per vedere davvero bisogna cambiare prospettiva: Kafka rende questa affermazione una poetica. Il suo linguaggio, nella sua densità afasica, non è solo descrittivo, ma performativo: fa accadere qualcosa nel lettore. Il mondo narrativo non è più rappresentazione del reale, ma spazio d’indistinzione tra ciò che è e ciò che si percepisce.
Pasolini, in Petrolio, tenta una diversa operazione di metamorfosi. Il protagonista Carlo subisce una trasformazione sessuale, da uomo a donna, ma la narrazione si concentra sul corpo, non sullo spazio. Mentre Kafka tematizza la crisi dello spazio percettivo e simbolico, Pasolini si sofferma sull’identità corporea e sulle sue variazioni. La mutazione in Kafka non è mai rivolta all’io, ma al mondo: è lo spazio circostante che cambia, si deforma, si chiude o si dilata, condizionando i movimenti psichici del soggetto. In Pasolini la metamorfosi si interiorizza; in Kafka si esternalizza, si ambienta nello spazio come costruzione narrativa.
Kafka è, con ogni evidenza, il precursore dell’ibridazione uomo-animale nella narrativa moderna. In Cent’anni di solitudine, Gabriel García Márquez riprende questa possibilità ma con un’esito diverso: i personaggi con tratti animaleschi vivono in un contesto di normalità mitica, sospesa nel tempo. Nei racconti di Kafka, invece, l’ibrido è scabroso, straniante, mai del tutto accettabile: produce attrito, genera domanda. È proprio questo attrito a costruire l’effetto vertiginoso della sua narrativa.
Karl Heinz Fingerhut individua nella scrittura kafkiana tre elementi fondanti: l’abolizione delle differenze tra uomo e animale, la perdita delle forme vitali distintive e la normalizzazione dell’ibrido nel quotidiano. Kafka, diversamente dalle favole antiche in cui l’animale era parlante ma distinto dall’umano, distrugge ogni gerarchia, e nel farlo rende impossibile ogni funzione moralizzante. Non c’è insegnamento nei racconti kafkiani: c’è smarrimento, vertigine, caduta.
In una celebre annotazione nei Diari, Kafka scrive che la letteratura è “un assalto all’uomo limite terreno, e precisamente assalto dal basso; dalla parte degli uomini”. Questo “dal basso” è il punto essenziale: la lingua, in Kafka, si pone contro il linguaggio normativo, razionale, istituzionale. Seguendo Foucault, potremmo dire che Kafka compie un uso intensivo del linguaggio, lo spreme fino a deformarne le strutture, trasformandolo in uno strumento di resistenza, di sabotaggio. È un atto di anti-governamentalità narrativa, in cui l’ordine del discorso viene sovvertito da uno scarto poetico che produce nuove forme di soggettività.
Ne Il processo, Kafka porta questa destrutturazione a livello istituzionale. Josef K., impiegato modello, viene arrestato senza motivo, processato senza processo, condannato senza colpa. La giustizia si rivela un apparato cieco, autoreferenziale, che giudica per il solo fatto di giudicare. Qui la scrittura kafkiana diventa spazio giuridico, non per descriverlo, ma per minarlo dall’interno.
Il diritto, come visto da Kafka, è un dispositivo di potere più che uno strumento di equità. Le sue logiche sono insondabili, il suo linguaggio è chiuso, tecnico, impenetrabile. Josef K. si aggira in un labirinto di autorità sfuggenti, di norme mai enunciate, di procedure vuote: è l’anticipazione del nichilismo giuridico moderno, in cui la legge non protegge, ma disumanizza.
Nietzsche e Foucault trovano qui un punto d’incontro nella lettura kafkiana: il diritto non è più fondato sull’etica, ma sulla norma; non garantisce giustizia, ma produce normalizzazione. In questo senso, Kafka è il più grande scrittore politico del Novecento non perché racconta la politica, ma perché mostra la sua grammatica occulta, i suoi automatismi.
Il cuore della riflessione kafkiana è che l’uomo non è un’essenza, ma un meccanismo. La “macchina antropologica” non evolve naturalmente, ma si autoalimenta, si costruisce attraverso dispositivi culturali che reprimono l’animalità originaria. La metamorfosi in Kafka non è deformazione mostruosa, ma ritorno a una condizione più autentica, più prossima alla verità del vivente. Per questo nei suoi racconti non esistono più confini netti tra specie: tutto è transitorio, labile, soggetto a crisi.
Agamben ha definito i personaggi kafkiani “spazi vuoti”, né uomini né animali, luoghi di possibilità sospese, sempre differite. In loro si rivela la crisi del moderno: la perdita del centro, dell’identità, della morale come criterio oggettivo. Kafka non offre risposte, ma varchi, crepe, soglie. È lì che si annida la sua grandezza: nel costruire una letteratura della sospensione, dell’indicibilità, della vertigine.
Kafka non è solo un autore. È un dispositivo critico. La sua opera ci invita a ripensare le categorie fondamentali dell’umano: identità, giustizia, normalità, linguaggio. La sua narrativa non è realistica, non è simbolica, non è filosofica: è tutto questo e insieme qualcosa d’altro, una pratica di scrittura che decostruisce il reale per mostrarne l’artificio. In Kafka la letteratura non consola, non istruisce, ma destabilizza. Ci mette in crisi. E in questa crisi, forse, si cela la possibilità di una nuova forma di libertà.