
In questo momento storico la fragilità giovanile si trasforma troppo spesso in rabbia. A ogni nuovo episodio di violenza, cresce la sensazione di assistere a una deriva che non è più eccezione, ma parte di un fenomeno sempre più diffuso. Ragazzi che feriscono, uccidono, umiliano. Altri che scelgono la brutalità come forma di comunicazione, o come scorciatoia per ottenere visibilità. E intanto, la società osserva, spesso indignata, ma altrettanto spesso disarmata.
Bisogna partire dalla cronaca, che ancora una volta riflette la realtà sociale più oscura. Recentemente, Palermo è stata scossa dall’omicidio di Paolo Taormina, un giovane di soli 21 anni, ucciso nel cuore della notte, a pochi passi dal locale gestito dai suoi genitori. L’aggressore è un uomo di 28 anni, Gaetano Maranzano, con precedenti per rissa e spaccio di droga. Durante l’interrogatorio, ha ammesso di aver sparato a Paolo con una pistola calibro 9, detenuta illegalmente, perché lo aveva identificato come il ragazzo che “aveva infastidito la sua fidanzata”.
Palermo non è un caso isolato: da Catania a Siracusa, passando per Caltanissetta, aumentano esponenzialmente episodi di violenza tra minori e giovani adulti. Secondo recenti dati (Lab24 – Il Sole 24 Ore), alcune città siciliane occupano posizioni preoccupanti per criminalità minorile e reati violenti. Siracusa è tra le prime sei province italiane per minacce; Palermo è tra le tre con più reati connessi allo spaccio. E Catania, tra le prime dieci per omicidi preterintenzionali. Numeri che parlano chiaro e che segnalano non solo un allarme, ma una richiesta urgente di azione. Ma la violenza giovanile non può essere spiegata soltanto attraverso la statistica o le cronache giudiziarie. Serve uno sguardo più incisivo, capace di leggere le radici culturali, psicologiche e sociali del fenomeno.
Negli ultimi anni, e in particolare dopo la pandemia, è emersa una condizione diffusa tra gli adolescenti: la vulnerabilità emotiva. Sempre più giovani vivono in uno stato di solitudine latente, privi di riferimenti solidi, in contesti familiari e sociali incapaci di fornire modelli positivi. Il malessere diventa spesso azione. L’insicurezza si esprime in aggressività. E l’identità, fragile e incerta, si costruisce attraverso la sfida o la sopraffazione. A ciò si aggiunge un fenomeno preoccupante: l’emulazione. Le baby gang, i video virali, le “challenge” estreme diventano strumenti attraverso cui i giovani cercano di guadagnarsi uno spazio. In una società che premia la visibilità, anche l’atto più estremo può sembrare legittimato, purché catturi l’attenzione.
Il sociologo Zygmunt Bauman descriveva questa dinamica come effetto della “società liquida”, dove i legami si fanno deboli, le identità instabili, e il riconoscimento si insegue nei modi più rischiosi. A sua volta, Émile Durkheim parlava di “anomia” come crisi di valori comuni. Oggi non attraversiamo l’assenza di norme, ma la sovrapposizione caotica di messaggi contraddittori: essere forti ma empatici, vincenti ma umili, visibili ma rispettosi. Una confusione che molti giovani non riescono a decifrare.
Non si può ignorare l’impatto della cultura mediatica. Molti adolescenti sono immersi in una continua esposizione a contenuti violenti, senza filtri né strumenti interpretativi. Serie TV con contenuti disturbanti, video su YouTube o TikTok che ostentano armi, denaro e potere come simboli di status, canzoni che raccontano una realtà dominata dalla legge del più forte. Questo bombardamento costante non solo desensibilizza, ma costruisce una sorta di “iperrealtà”, come la definiva il sociologo Jean Baudrillard: una dimensione in cui finzione e realtà si fondono, rendendo la violenza quasi un gioco, un’esperienza priva di reale empatia. Il gesto estremo, in questa logica, perde la sua gravità e diventa rappresentazione.
In questo contesto, l’educazione ai media — se rimane puramente tecnica — risulta insufficiente. I giovani non hanno solo bisogno di “saper usare” gli strumenti digitali, ma di comprenderne il significato culturale ed emotivo. È qui che entra in gioco la educomunicazione, un approccio educativo che punta a sviluppare competenze critiche, narrative ed etiche, rendendo i giovani non solo fruitori, ma autori consapevoli di contenuti.
Le risposte repressive, pur necessarie, non possono bastare. Non si combatte la violenza solo con nuove leggi. Serve prevenzione: nei quartieri difficili, nelle scuole, nei centri giovanili. È indispensabile un’alleanza educativa tra famiglie, insegnanti, educatori, istituzioni. Occorre un investimento serio sulla cultura e sul senso civico. In particolare, è urgente costruire spazi in cui i giovani possano esprimersi in modo sano: laboratori narrativi, podcast, teatro sociale, video partecipativi. Percorsi dove raccontare la propria storia diventa occasione di confronto, crescita, ascolto reciproco. Dove si impara che l’altro non è un nemico, ma una possibilità di relazione.
Il rafforzamento del tessuto sociale è un altro pilastro imprescindibile. Le città cambiano: nuove comunità, nuove povertà, nuovi bisogni. Ignorarli significa alimentare la frattura sociale. L’inclusione non è solo una questione di assistenza, ma di partecipazione attiva, di appartenenza. Anche sul piano normativo, è necessario sostenere le realtà educative e sociali con strumenti concreti: risorse economiche, formazione, sinergie tra scuola, sanità, giustizia minorile e terzo settore. Solo così si può sviluppare un sistema integrato di prevenzione e intervento.
Non basta più indignarsi. È fondamentale avere coraggio. Il coraggio di rimettere al centro l’educazione come atto culturale, sociale e umano. Educare attualmente significa contrastare una cultura dell’odio con una cultura dell’ascolto. Vuol dire affermare che la vera forza non è nell’aggressione, ma nella relazione. Se intendiamo migliorare la situazione, dobbiamo farlo partendo dalle radici: accompagnando i giovani nella costruzione della propria identità, offrendo alternative credibili, riaccendendo la fiducia nel futuro. Come ricordava Martin Luther King, “l’odio non scaccia l’odio, solo l’amore può farlo”. È un principio radicale. La risposta alla violenza non può essere altra violenza. Deve essere responsabilità, empatia, presenza.
Guidare è il nostro compito. È la nostra urgenza. È il nostro percorso da seguire.

