
[fonte foto: minimaetmoralia.it]
Nel centenario della nascita di Paolo Volponi (Urbino, 1924 – Ancona, 1994), la ripubblicazione della sua opera da parte di Einaudi, l’allestimento di una mostra a Urbino e il convegno internazionale a lui dedicato offrono l’occasione per riflettere su uno degli intellettuali italiani più complessi e radicali del Novecento. Scrittore, poeta, dirigente industriale e politico, Volponi ha attraversato la modernità senza rinunciare mai a un pensiero critico sul lavoro, sulla tecnologia, sul linguaggio e sul destino umano. Questo articolo ripercorre l’evoluzione della sua opera e del suo impegno culturale, analizzando la straordinaria tensione tra poesia e impegno sociale, tra lirismo e razionalità, tra la modernità e le sue rovine. In Volponi, la letteratura è sempre un atto di resistenza e di profezia: la scrittura diventa uno strumento di diagnosi antropologica, un’officina di verità e un grido civile.
Paolo Volponi è stato una figura eccentrica, nel senso più nobile del termine, rispetto al panorama letterario e politico italiano del secondo Novecento. La sua opera, come ha notato Giovanni Raboni, non è mai stata mera rappresentazione: è visione, profezia, deformazione e denuncia. A cent’anni dalla nascita, la sua figura torna finalmente al centro del dibattito culturale grazie alla ripubblicazione di gran parte del suo corpus da parte di Einaudi: dal Sipario ducale a La macchina mondiale, dalle Poesie a Romanzi e prose curati da Emanuele Zinato, fino alla mostra documentaria Paolo Volponi: un itinerario nella vita e nell’opera. Nelle prime pagine del Sipario ducale, rivive il suo mondo fatto di paesaggio interiore e sociale, come nel passo iniziale in cui il professor Subissoni si aggira nella neve di Urbino. È già tutto Volponi: l’intellettuale che arranca nella storia, combattuto tra visioni e resistenze. Ed è in questo sguardo complesso, sospeso tra lirismo e ragionamento, che si ritrova la cifra più autentica di uno scrittore che ha saputo fondere poesia, romanzo, saggio e azione politica.
Nato nella fucina di un’Italia ancora rurale, Volponi inizia come poeta. Il ramarro (1948) si inserisce nel solco post-ermetico ma già ne scardina le forme con una lingua irrequieta e carica di tensioni. La sua poesia non è mai pura, mai simbolica in senso autotelico: è “ossessione acustica”, come osserva Zinato, ma anche geografia morale. Dalle raccolte giovanili agli ultimi testi di Nel silenzio campale (1990), l’evoluzione poetica di Volponi è attraversata da rotture, scarti, contraddizioni. In Ettore, per esempio, si affaccia una meditazione sulla morte e sulla distanza che non è solo biografica, ma collettiva. È la morte di un mondo, quello del lavoro vissuto come comunità, quello della resistenza come gesto di etica condivisa. Il paesaggio diventa coscienza, come nella struggente Le mura di Urbino, in cui la città natale si fa simbolo ineludibile, ferita e balsamo insieme.
Il romanzo volponiano nasce direttamente dal corpo a corpo con la modernità industriale. In Memoriale (1962) e poi ne La macchina mondiale (1965), Volponi sperimenta una narrativa che ha la funzione di un sismografo sociale. Il mondo del lavoro è il campo di battaglia fra tecnica e coscienza, fra produzione e alienazione. Ma a differenza del naturalismo industriale, Volponi non si limita a registrare: rende visibile l’invisibile, come nei deliri visionari del protagonista Albino Saluggia. Da Olivetti a Fiat, il suo ruolo di dirigente non contrasta con la sua vocazione letteraria: al contrario, la potenzia. È all’interno delle aziende che Volponi coglie il fallimento dell’umanesimo produttivo, il lento degrado del rapporto tra uomo e tecnica. Ne Le mosche del capitale (1989), il personaggio di Bruto Saraccini incarna l’ultima possibilità per una dirigenza “morale”, destinata però a soccombere sotto il peso di logiche aziendali ciniche e autodistruttive.
Negli anni Ottanta, Volponi porta la sua visione dentro le istituzioni. Senatore indipendente per il PCI, poi deputato con Rifondazione Comunista, si fa promotore di una politica fondata sulla centralità della cultura. I suoi discorsi in Parlamento – raccolti nel volume Parlamenti (Ediesse, 2011) – sono atti letterari, teorie politiche e invettive etiche. Nel suo celebre intervento del 1985 sulla riforma della scuola superiore, Volponi denuncia con lucidità il dominio della logica del mercato sul sapere: «La scuola – afferma – non è più luogo di formazione della cultura ma strumento di addestramento alle esigenze del capitale». Le sue parole, oggi, sembrano anticipare il dibattito contemporaneo sulla funzione critica dell’educazione e sul ruolo delle tecnologie come apparati di potere più che di emancipazione.
Nell’opera di Volponi, Urbino non è mai solo sfondo, ma spazio ontologico, corpo simbolico, luogo di un’ossessione che è insieme amore e distanza. È la città dell’infanzia, dell’università, delle prime letture e delle ultime visioni. La poesia A questo tavolo si tennero in tanti, con la sua evocazione della pietra bianca e della memoria che si scolora, sintetizza l’immagine di un io che, pur nella fragilità, cerca la continuità con una comunità perduta.
Quella di Volponi è una poetica della soglia: tra vita e storia, tra natura e artificio, tra sé e il mondo. Il paesaggio marchigiano diventa riflesso interiore, campo di forze contrastanti. Urbino, come il soggetto umano che Volponi mette sempre al centro, è aggredita e resistente, mitica e ferita, luogo e non-luogo. Il centenario ha riportato Volponi al centro di nuove letture. Il convegno internazionale Le carte, l’opera, la polis lo ha inserito nei circuiti critici della teoria contemporanea: ecologia letteraria, distopia, postumanesimo. Temi presenti da sempre nella sua produzione, basti pensare all’invasività della tecnica e al collasso dell’individuo nel mondo capitalistico. L’intellettuale che credeva nella “materialità della verità” e nella ricerca come principio democratico si rivela oggi straordinariamente attuale. La sua diffidenza per le “tecnologie dell’apparenza”, la sua ostinazione per un sapere che unisce mani, mente e corpo, fanno di lui una figura necessaria nel dibattito odierno sulla crisi delle democrazie, sull’istruzione come diritto e sulla letteratura come forma di resistenza. Volponi è stato molte cose: poeta, romanziere, funzionario, senatore, pedagogo, testimone. Ma è stato soprattutto uno scrittore “esposto” – come i suoi personaggi – alla temperatura del tempo. La sua opera non ha mai cercato la quiete o la celebrazione, ma ha attraversato la Storia con la volontà di trasformarla.
Nel suo continuo oscillare tra corpo e idea, tra utopia e denuncia, Volponi ci ha lasciato una lezione radicale: la letteratura è sempre un luogo di lotta, di verità, di futuro. Per questo, oggi più che mai, le sue parole ci interrogano, ci mancano, ci illuminano.