
[fonte foto: bresciatoday.it]
Giulio Andreotti è stato uno dei personaggi più longevi e discussi della storia politica italiana del Novecento. Con sette incarichi da Presidente del Consiglio, ventisette ministeri e una presenza continua in Parlamento dalla nascita della Repubblica fino alla sua morte nel 2013, la sua carriera ha attraversato quasi sessant’anni di eventi cruciali per l’Italia. Intorno alla sua figura è nato un mito intricato, fatto di ironia, potere silenzioso, strategie impenetrabili e sospetti inquietanti. Questo articolo intende ricostruire la biografia e l’attività politica di Andreotti distinguendo tra la realtà dei fatti e la leggenda, attraverso un’analisi storica dei suoi anni di governo, dei suoi rapporti con il potere ecclesiastico, con gli Stati Uniti e con la criminalità organizzata. Il tentativo è quello di storicizzare una figura che ha incarnato lo status quo, tra diplomazia, conservatorismo e ambiguità.
Giulio Andreotti è stato l’incarnazione perfetta di un potere che non ha mai avuto bisogno di gesti eclatanti per affermarsi. Come osservò Oriana Fallaci già negli anni Settanta, il suo stile politico era l’opposto della teatralità: raffinato, sottile, inafferrabile. Le sue celebri battute – spesso aforismi che sintetizzavano una visione disincantata e cinica della politica – lo hanno trasformato in un’icona dell’ambiguità italiana, un uomo al tempo stesso rassicurante e inquietante.
Il mito andreottiano si è fondato su una serie di tratti personali: l’intelligenza tagliente, il controllo assoluto delle emozioni, l’apparente indifferenza al potere pur essendone uno degli interpreti più longevi. Tutto questo è stato amplificato da una carriera incredibilmente precoce e duratura, dalla sua rete di relazioni – politiche, ecclesiastiche, internazionali – e infine dalle ombre che hanno accompagnato gli ultimi decenni della sua vita pubblica.
Andreotti nacque a Roma nel 1919, in una famiglia modesta, cresciuto in un ambiente profondamente cattolico e vicino alle istituzioni ecclesiastiche. La sua formazione intellettuale e politica passò per la FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), dove conobbe Aldo Moro, e si consolidò nell’incontro fondamentale con Alcide De Gasperi. Fu De Gasperi ad avviarlo alla vita politica, inserendolo nel suo entourage fin dagli anni Quaranta, quando Andreotti era poco più che ventenne.
Nel dopoguerra, con la fondazione della Democrazia Cristiana, Andreotti si trovò subito in posizioni di rilievo. Dal 1947 fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e in seguito ricoprì numerosi ministeri. La sua ascesa fu costante, favorita da una capacità rara di non esporsi mai troppo, ma di essere presente nei momenti decisivi. Mentre altri democristiani si logoravano nei contrasti interni, Andreotti sembrava sempre trovare una via d’uscita. Per decenni fu una figura centrale nella stabilità dei governi italiani.
Se Andreotti non ha lasciato un’impronta riformatrice in senso classico, è stato però un abile gestore della complessità. Nei momenti più delicati della storia italiana – la crisi economica degli anni Settanta, gli anni del terrorismo, il compromesso storico, il cammino europeo – fu chiamato spesso a guidare il governo o a ricoprire incarichi chiave, proprio per la sua affidabilità come garante della continuità.
Il suo approccio era quello della “politica dei due forni”: pronto a trattare tanto con i socialisti quanto con i comunisti, pur mantenendo l’anima della DC saldamente al centro. Questa capacità di adattamento, a volte scambiata per cinismo, gli permise di attraversare epoche politiche diverse senza mai essere davvero sconfitto.

Uno degli episodi più controversi della carriera andreottiana fu il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro nel 1978. Andreotti era presidente del Consiglio in quel momento, e la sua linea fu quella della fermezza assoluta: nessuna trattativa con le Brigate Rosse. Le lettere di Moro dalla prigionia, che lo descrivevano come freddo e spietato, hanno alimentato l’immagine di un uomo indifferente alla sorte dell’amico e collega.
Nonostante le critiche, la scelta fu condivisa dalla quasi totalità della classe politica dell’epoca. Tuttavia, nel mito pubblico, Andreotti emerse come il volto più gelido del potere, quello capace di anteporre la ragion di Stato a ogni umanità.
Negli anni Novanta, dopo la fine della Prima Repubblica, Andreotti finì al centro di uno dei processi più clamorosi della storia giudiziaria italiana: fu accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Le sentenze confermarono un quadro ambiguo. Secondo la Corte, Andreotti aveva avuto rapporti con esponenti di Cosa Nostra fino al 1980, anche se i reati risultavano prescritti. Per gli anni successivi fu invece assolto perché “il fatto non sussiste”.
Il processo contribuì enormemente alla costruzione del mito negativo del “divo Giulio”: uomo potentissimo, forse intoccabile, sicuramente esperto nel muoversi nei corridoi più oscuri dello Stato. Fu anche accusato, e poi assolto, di essere il mandante dell’omicidio del giornalista Mino Pecorelli. L’assoluzione non dissipò del tutto i sospetti, ma contribuì a rafforzare la narrazione di Andreotti come figura indecifrabile, al confine tra legalità e segreti di Stato.
Con la fine della Guerra fredda e il crollo della Democrazia Cristiana, anche Andreotti perse progressivamente influenza. Rientrò brevemente nel dibattito pubblico con la candidatura alla presidenza del Senato nel 2006, ma il suo tempo era ormai passato. Si dedicò alla scrittura e alla sistematizzazione del suo archivio personale, depositato all’Istituto Luigi Sturzo, che oggi rappresenta una fonte preziosissima per gli storici.
Morì nel 2013, all’età di 94 anni. La sua morte non mise fine al dibattito su di lui, ma lo rese parte integrante della memoria collettiva della Prima Repubblica. Film come Il Divo di Paolo Sorrentino e libri come Il papa nero di Michele Gambino o Nient’altro che la verità di Giulia Bongiorno continuano ad alimentare interpretazioni contrapposte, tra demonizzazione e apologia.
Giulio Andreotti non è stato soltanto un politico longevo: è stato una vera e propria categoria politica. La sua figura rappresenta un caso unico nella storia repubblicana per la capacità di concentrare potere, di influenzare gli equilibri internazionali, di restare sempre nel cuore delle istituzioni senza mai sbilanciarsi troppo. L’ambiguità, per lui, non fu un difetto ma una strategia.
Storicizzare Andreotti significa oggi capire il contesto che lo ha generato: la Guerra fredda, la centralità del Vaticano, l’atlantismo, l’anticomunismo, il timore della destabilizzazione. Con il passare del tempo, la sua figura potrà forse essere letta con maggiore distanza critica. Per ora resta, nella memoria del paese, l’enigma di un potere che sapeva parlare a bassa voce ma si faceva sentire ovunque.

