Nelle ultime settimane si è fatto un gran parlare della “necessità” di fornire maggiori risorse al settore della difesa (difesa da chi?). Dell’ “impegno” dell’Italia a destinare a questo settore non più il 2% ma addirittura il 5% del PIL nazionale. Del fatto che è necessario ammodernare armi e armamenti ormai vecchi e poco efficienti. Nel 2023 in un report si parlava della situazione critica di alcuni settori. Della carenza critica di munizioni (ma non disse nulla della dozzina di Maserati Quattroporte blindate comprate qualche anno prima con i soldi dei contribuenti e destinate alle forze armate). In realtà, negli ultimi anni, lo Stato ha già avviato un processo di ammodernamento della sua dotazione di armi e sistemi di equipaggiamento dell’esercito. Sono state investite ingenti risorse per l’acquisto di nuovi sistemi d’arma, per la modernizzazione di quelli esistenti e per l’implementazione di tecnologie avanzate. Come l’Armalite AR-15 e i fucili della serie Beretta. O i nuovi modelli di veicoli blindati, come l’Iveco LMV (che dovrebbero offrire maggiore protezione e mobilità). Per non parlare dell’acquisto di aerei come l’Eurofighter Typhoon che hanno ampliato le capacità aeree e di sistemi avanzati come il SAMP/T che ha migliorato le capacità di difesa aerea. E poi gli F35…. Una strategia di armamento da sempre basata sul principio di interoperabilità con le forze NATO e le missioni internazionali: l’Italia, infatti, ha scelto di adottare sistemi d’arma compatibili con le tecnologie delle altre nazioni alleate. Sforzi ai quali non ha fatto da contraltare il comportamento degli USA che in più occasioni anno ribadito che non interverranno in Europa in casso di necessità e che la difesa del continente europeo è di competenza degli Stati europei (che fine ha fatto il “Patto” atlantico da cui l’acronimo NATO?).
Non sarebbe più opportuno utilizzare i fondi a disposizione del governo per altre iniziative invece che decidere di aumentare la spesa in armi e armamenti? I settori che necessitano di interventi urgenti non mancano. La sanità, ad esempio. Un rapporto dell’inizio del 2025 parla di una preoccupante carenza di personale e attrezzature nelle strutture pubbliche di molte delle regioni del Sud. E spesso il personale che va in pensione non viene rimpiazzato creando un cronico peggioramento del servizio pubblico. Situazione analoga per l’edilizia scolastica. I dati del MIM confermano che le circa 40mila scuole italiane avrebbero bisogno di urgenti interventi di manutenzione straordinaria. Spesso anche strutturali: molti edifici scolastici non disporrebbero nemmeno del certificato di agibilità! Eppure di questi problemi non si parla mai. E i (pochi) fondi destinati a questo settore solitamente vengono distribuiti “a pioggia”. In questo modo, però, la situazione della sicurezza scolastica rimane critica.
Non meno importante il problema della gestione delle risorse idriche d’acqua dolce. Molti degli impianti idrici nazionali sono vecchi. A confermarlo il rapporto del 2024 di Federconsumatori nel quale si afferma che le infrastrutture idriche italiane stanno subendo un “significativo processo di invecchiamento e deterioramento”, soprattutto nei centri urbani. In Italia, oltre il 60% delle tubazioni è stato posato più di 30 anni fa (il 25% ha più di 50 anni). Secondo un rapporto del 2024 dell’ISTAT, nel 2022, le condotte idriche comunali italiane hanno perso circa il 42% dell’acqua potabile immessa. Veri e propri colabrodo con danni e costi inimmaginabili per le persone e per l’ambiente. A volte con punte di ridicolo: in Basilicata si perderebbe fino al 70% dell’acqua immessa nelle condutture. Vale a dire di tre litri immesse in condotta ne arrivano ai destinatari meno di uno (che però paga per tre). Acqua che potrebbe alleviare la crisi idrica: per assurdo proprio in Basilicata siccità, sprechi e perdite hanno quasi prosciugato alcuni bacini idrici e privato decine e decine di comuni di acqua corrente regolare. Decine e decine di migliaia gli persone colpite. Non dagli attacchi di non sa quale potenza straniera, ma dalla cattiva gestione e dalla mancanza di fondi nazionali. Peraltro una situazione che il governo non può dire di non conoscere visto che nell’autunno 2024 era stato costretto a dichiarare lo stato di emergenza.
E mentre i vertici delle forze armate chiedono armi e armamenti sempre più moderne, in altri settori l’Italia sta “tornando al Medioevo a causa di una crisi idrica che non è solo ed esclusivamente l’effetto del caldo estremo e della siccità, ma soprattutto di anni e anni di amministrazioni insipienti verso una rete di scolapasta e una gestione del sistema fatta di rattoppi e non di interventi strutturali”, come ha detto Carmine Vaccaro, segretario del Sindacato Italiano Pensionati. Il punto è che “l’infrastruttura idrica [della Basilicata] – come il resto del Sud Italia – risale agli anni ’40 e ’50”, come ha dichiarato in una recente intervista Vera Corbelli, segretario generale dell’Autorità di bacino del distretto dell’Appennino meridionale. “Oggi, questa infrastruttura ha raggiunto, e in alcuni casi superato, la sua vita utile”. E quindi “la semplice sostituzione della rete esistente non è fattibile sotto molti aspetti, soprattutto dal punto di vista finanziario”. A questo si aggiunge che i cambiamenti climatici in atto, con ondate di calore, siccità e improvvise esplosioni di piogge torrenziali, rendono più difficile la raccolta e la gestione delle acque dolci.
Un problema, quello della gestione dell’acqua potabile, che non riguarda solo l’Italia: gran parte delle infrastrutture idriche europee necessitano di interventi infrastrutturali e le autorità nazionali ed internazionali son state finora pericolosamente impreparate. Ma anche in Europa, nessuno sembra pensare a queste infrastrutture, ma soltanto a spendere centinaia di miliardi di euro in armi e armamenti. Per il resto solo promesse al vento e frasi di rito. Come quelle diffuse recentemente e attribuite alla Commissione europea che dovrebbe presentare nel prossimo futuro (ma non si quando) una strategia per la resilienza idrica. “L’attenzione deve essere rivolta alla lotta contro le perdite e le perdite indesiderate, supportata da strumenti digitali”, si legge nel testo dell’esecutivo dell’UE. Chi governa sa bene che questa “strategia” servirà a poco. I tubi colabrodo sono solo una piccola parte del problema della gestione delle riserve di acqua dolce.
Così come è ormai chiaro che spendere decine di miliardi di euro in armi e armamenti non servirà a rendere l’Italia o l’Europa un territorio più sicuro in caso di guerra mondiale (ammesso che non sia già in atto). Servirà solo a far aumentare gli utili di poche grandi aziende, italiane, europee ma soprattutto made in usa. E a produrre danni incalcolabili all’ambiente: mentre gli europei sono costretti a guidare auto ecofriendly, i governi promuovono l’utilizzo di mezzi militari il cui impatto ambientale è incalcolabile. Dei problemi seri – sanità, ambiente, educazione – non sembra importare niente a nessuno. Né al governo né all’opposizione (non ne parla mai). E nemmeno ai governi dell’UE. Tanto meno ai burocrati di Bruxelles. Quelli non eletti da nessun cittadino UE ma che comandano l’Unione Europea basandosi su studi ridicoli (come quelli per le emergenze che sembrano un piano di intervento post-apocalittico con lo “zainetto”) e di regolamenti impositivi. Eppure anche in Belgio, sede del Parlamento Europeo, il problema dell’acqua è ormai primario. Nonostante le piogge copiose, questo paese si trova oggi ad affrontare un “livello estremamente elevato di stress idrico”, come risulta da un recente studio del World Resources Institute. Il Belgio occupa il 18esimo posto a livello mondiale (l’Italia è al 41esima) ed è un paese ad “elevato stress idrico”.
Ma questo ai membri del PE o a quelli della CE sembra non interessare: finito il mercato della pandemia (con i giri d’affari miliardari in vaccini e affini), ora a loro interessa solo decidere come spendere 800 miliardi in armi e armamenti….