Negli ultimi anni, la diffusione massiccia degli smartphone ha trasformato radicalmente le dinamiche sociali e comportamentali, soprattutto tra i più giovani. Questi dispositivi, inizialmente dispositivi di comunicazione, sono divenuti veri e propri compagni di vita, capaci di influenzare in profondità la sfera emotiva e psicologica degli adolescenti. Forse non tutti lo sanno, ma un numero sempre più diffuso di italiani è affetto da Nomofobia: una forma d’ansia che spinge a controllare compulsivamente lo smartphone, anche fino a 80 volte in un’ora, per timore di perdere notifiche o messaggi. Questo comportamento, ormai radicato nella nostra routine quotidiana, non è semplicemente frutto dell’abitudine, ma rappresenta un segnale evidente di quanto il nostro rapporto con la tecnologia sia cambiata in modo profondo. Su questo argomento è intervenuto anche il giornalista Alessandro Vinci, che in un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera ha spiegato in modo chiaro cosa significhi Nomofobia. Il termine, infatti, “è ben illustrato dalle parole inglesi da cui trae origine: «No mobile phobia», ovvero la paura di non avere rapido accesso al cellulare al fine di essere continuamente rintracciabili”. Un atteggiamento che evidenzia la cosiddetta “Fear of Missing Out”, ovvero il timore costante di essere tagliati fuori da conversazioni, notizie o eventi significativi.
La crescente assuefazione alle connessioni digitali ha iniziato a manifestarsi con segnali allarmanti che superano la semplice distrazione o la perdita di tempo: si tratta di una condizione che in alcune circostanze estreme si configura come una vera e propria crisi d’astinenza, con implicazioni rilevanti per famiglie, scuole e servizi sanitari. Gli esperti hanno esaminato questo fenomeno emergente, sottolineando come i soggetti più esposti a questa condizione siano coloro che utilizzano internet per molte ore al giorno, sia per motivi di studio che di lavoro. Una testimonianza significativa arriva da Torino, dove un caso riportato in un articolo pubblicato su Fanpage.it e scritto dalla giornalista Gabriella Mazzeo ha messo in luce una condizione poco esplorata ma molto concreta: un adolescente si è presentato in ospedale manifestando una crisi d’astinenza legata all’impossibilità di usare il proprio smartphone. A raccontare la vicenda al Corriere della Sera è il Prof Gianluca Rosso, medico chirurgo specialista in psichiatria. Secondo il Prof. Rosso dell’ospedale San Luigi di Orbassano, il giovane “stava reagendo al divieto dei genitori di usare lo smartphone”, e i suoi sintomi erano tali da far pensare a una carenza da sostanze stupefacenti. “Può diventare come una droga, lo abbiamo curato come si curano coloro che entrano in astinenza da stupefacenti e alcolici”, ha dichiarato il Prof. Rosso, descrivendo una reazione psicomotoria severa che ha richiesto cure ansiolitiche di emergenza. Questo episodio illumina un fenomeno sociologico rilevante: il legame instaurato con il cellulare non è solo di tipo funzionale o ludico, ma ha caratteristiche molto simili a quelle di una dipendenza da sostanze. Come spiegato dal medico, “la persona crea con lo smartphone un legame simile a quello ottenuto da altre sostanze d’abuso come alcol, sigarette e stupefacenti. Tutte portano a uno stimolo continuo del sistema dopaminergico al quale il cervello si abitua”. Tra i sintomi principali della dipendenza digitale vi sono la distorsione temporale, la perdita di ore di sonno, il calo del rendimento scolastico o lavorativo e un progressivo isolamento sociale che può arrivare a compromettere i rapporti familiari. In certi casi, come nella dipendenza da pornografia online, la sessualità virtuale può sostituire quella reale, generando relazioni “liquide” e superficiali, un concetto analizzato dal sociologo Zygmunt Bauman. La quantità di contatti e “follower” sostituisce la qualità delle interazioni personali, creando un isolamento mascherato da connessione.
La vicenda di Torino evidenzia anche il ruolo cruciale del nucleo familiare, chiamato a sostenere il giovane nel percorso di recupero, una responsabilità che esula dalle competenze mediche. Dopo il trattamento ospedaliero, infatti, “l’adolescente è stato rimandato a casa con la famiglia che ora dovrà occuparsi di sostenerlo nel percorso che lo porterà a liberarsi dell’uso smodato del telefonino”. La dipendenza da internet si presenta in forme diverse a seconda dei contenuti fruiti: al primo posto vi sono i siti pornografici, seguiti dai social network, dalle chat, dai giochi online, dalle scommesse e dallo shopping digitale, fino alla “bulimia informativa”, ovvero la ricerca compulsiva di notizie sempre aggiornate. Questo comporta un aumento progressivo del tempo trascorso online per raggiungere uno stato di soddisfazione. Questo passaggio fa emergere un aspetto fondamentale della questione: la dipendenza da smartphone non può essere risolta solo con interventi medici o tecnologici, ma richiede un impegno sociale e culturale, a partire da un’educazione consapevole che coinvolga l’intera comunità educante. L’assenza di strutture dedicate e di protocolli specifici per affrontare questa nuova forma di abuso segnala un vuoto nella risposta sociale. Quanto è accaduto a Torino dimostra che, con un intervento tempestivo e un accompagnamento familiare, è possibile superare i momenti più difficili. Inoltre, apre la strada a una riflessione più ampia sul ruolo della tecnologia nella nostra vita, spingendo verso un uso più responsabile e sano. La sfida è convertire il rischio in opportunità, educando le nuove generazioni a un rapporto più maturo e autonomo con gli strumenti digitali. Occorre affrontare questa realtà con mezzi adeguati e con una visione interdisciplinare che comprenda aspetti medici, psicologici e sociologici. La tecnologia, pur essendo una risorsa straordinaria, può trasformarsi in una trappola se non accompagnata da un’educazione e da un supporto sociale efficaci.
Per questo, la società deve impegnarsi nel creare ambienti protetti e sicuri, dove giovani e meno giovani possano sviluppare una relazione equilibrata con il digitale, prevenendo così forme di attaccamento patologico che rischiano di compromettere il benessere psicofisico e le relazioni interpersonali. Solo così potremo garantire un futuro in cui progresso e umanità possano convivere in armonia.