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La tecnologia degli anni ’80, ’90 e primi 2000 rappresenta un’epoca che oggi, a distanza di qualche decennio, appare quasi come un mondo parallelo rispetto all’universo digitale che viviamo quotidianamente. Quegli strumenti – il walkman, i telefoni a rotella, i primi computer domestici, le console da gioco – erano costruiti con una logica radicalmente diversa: la durabilità, la riparabilità e la semplicità d’uso erano al centro del progetto. Un dispositivo non era concepito per essere sostituito a breve, ma per accompagnare il suo proprietario in anni di utilizzo. Questa solidità materiale corrispondeva a un modello di fruizione meno frenetico e più consapevole. Si ascoltava un’intera cassetta o un vinile, si telefonava senza interruzioni digitali, si scriveva una lettera con calma, esercitando la pazienza e la riflessione.
Oggi, al contrario, la tecnologia che ci circonda è caratterizzata da una rapidità estrema nell’obsolescenza, un’eccessiva complessità funzionale e una dipendenza crescente dai continui aggiornamenti software e dalla connessione internet. Gli smartphone, per fare un esempio lampante, sono tra i dispositivi più usati al mondo, ma spesso hanno una durata programmata ben inferiore a quella dei prodotti analogici del passato. Sono progettati per essere sostituiti in fretta, complici materiali più fragili, batterie non removibili e software che, nel tempo, rallentano il sistema. Questo modello di “obsolescenza programmata” non solo impatta l’ambiente, con un aumento dei rifiuti elettronici, ma contribuisce anche a creare una forma di dipendenza consumistica che ha risvolti culturali e sociali profondi.
Un altro aspetto che si è perso riguarda la semplicità d’uso. I dispositivi di un tempo avevano comandi chiari e funzioni essenziali, accessibili a chiunque, senza bisogno di manuali complessi o aggiornamenti continui. Oggi, la tecnologia è spesso sovraccarica di funzioni, molte delle quali non vengono nemmeno utilizzate dalla maggior parte degli utenti. Interfacce ingombranti, notifiche continue, algoritmi che tentano di anticipare i nostri bisogni possono trasformare l’esperienza d’uso in un labirinto di distrazioni, che alimenta la dipendenza da smartphone e social media e mina la capacità di concentrazione.
Ma la perdita più grave riguarda forse il valore dell’esperienza umana stessa. La tecnologia analogica imponeva un ritmo più lento, che favoriva la riflessione, la memoria e la creatività. Oggi l’iperconnessione e la velocità tendono a frammentare l’attenzione, riducendo la profondità con cui viviamo le nostre interazioni e le nostre passioni. La cultura del “tutto e subito” rischia di farci dimenticare l’importanza di aspettare, di soffermarci su un dettaglio, di assaporare un momento.
Non meno importante è la questione della privacy e dell’autonomia. Negli anni ’80 e ’90, il concetto di dati personali era ancora marginale, perché la tecnologia non permetteva raccolte massicce e profilazioni sofisticate. Oggi, ogni clic, ogni ricerca, ogni like è tracciato, catalogato e monetizzato. La nostra vita digitale è diventata una merce preziosa per aziende e governi, con implicazioni che vanno ben oltre la semplice comodità: la sorveglianza di massa, la manipolazione dell’informazione e la perdita di controllo sui propri dati sono temi centrali che scuotono le fondamenta stesse della società contemporanea.
Quindi, la domanda “miglioria o regresso?” non ha una risposta semplice. La tecnologia moderna ha aperto porte impensabili, democratizzando l’accesso all’informazione, facilitando il lavoro e le relazioni a distanza, creando nuove forme di intrattenimento e di espressione. Tuttavia, questo progresso ha un costo che non può essere ignorato: la fragilità dei dispositivi, l’invasività digitale, la distrazione permanente, l’erosione della privacy e, in ultima analisi, un possibile impoverimento della qualità della vita.
La sfida più urgente che abbiamo davanti non è fermare il progresso tecnologico, ma ripensarlo. Occorre sviluppare una tecnologia che sia sostenibile, accessibile, rispettosa dell’utente e del pianeta, e che sappia riconciliare la velocità con la profondità, la quantità con la qualità. Solo così potremo trasformare un potenziale regresso in un autentico miglioramento, costruendo un futuro in cui la tecnologia sia davvero al servizio dell’uomo e non il suo padrone.